Il Principe, il Guappo e la caccia al tesoro più pazza del mondo

Il Principe, il Guappo e la caccia al tesoro più pazza del mondo
di Vittorio Del Tufo
Domenica 3 Febbraio 2019, 20:00
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«Per avere una grazia da San Gennaro bisogna parlargli da uomo a uomo».
(Don Vincenzo o Fenomeno, Operazione San Gennaro).
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Era stato un inverno gelido, quello del 1947. Le temperature erano scese in picchiata, la neve era caduta a bassa quota. In un'Italia ancora sconvolta dalla guerra, il Torino di Valentino Mazzola si avviava a conquistare il suo quarto titolo, mentre gli azzurri di Sentimenti II (Arnaldo) avrebbero concluso il campionato piazzandosi all'ottavo posto. All'inizio dell'anno un gruppo di militanti dell'Uomo qualunque, a Barra, aveva attaccato un corteo comunista; negli scontri era rimasto ucciso Giorgio Ballarano, militante del Pci. Il quotidiano più diffuso, a Napoli, era Il Risorgimento, le cui pagine sportive erano curate dal giovane Gino Palumbo. L'8 marzo 1947, alle 23 in punto, un'auto nera s'inchioda davanti alla Cattedrale. Ne scendono due uomini. Il primo è il novantenne principe don Stefano Colonna di Paliano, arzillo vicepresidente della Deputazione del Tesoro di San Gennaro. Il secondo è don Giuseppe Navarra, famoso guappo napoletano, noto alle cronache, e ai concittadini, come il re di Poggioreale. I due hanno appena portato a termine la più incredibile delle missioni, la più leggendaria delle imprese: riportare a casa il Tesoro di San Gennaro, nascosto in Vaticano, durante la seconda guerra mondiale, per evitare che bombardamenti e ladri potessero distruggerlo o depredarlo.

Questa storia, alimentata dalla fervida fantasia popolare, e arricchita di volta in volta con particolari gustosi ma altamente improbabili, comincia nell'ottobre 1943, quando i monaci di Montecassino, d'intesa con il podestà di Napoli e i vertici della Deputazione, riescono ad occultare la collezione. E a portarla a Roma, sottraendola così alle devastazioni della guerra. Il più grande tesoro del mondo, tre casse piene di gioielli e diamanti donati nei secoli a San Gennaro - c'è anche una preziosissima mitra con oltre tremila diamanti, rubini e smeraldi - viene portato dunque al sicuro. Ma dove? In un primo momento oro e gemme preziose finiscono proprio nell'abbazia di Montecassino; da lì verranno trasferiti prima nella Biblioteca Apostolica Vaticana e poi a San Paolo fuori le Mura. Ma alla fine della guerra a Napoli qualcuno comincia a storcere il naso, a chiedersi che fine abbia fatto il tesoro, ad avanzare dubbi e sospetti. Benché, come ricostruito da Nando Tasciotti nel libro San Gennaro a Montecassino, non sarebbe stato il Vaticano a tergiversare sulla riconsegna, ma la Deputazione a prendere tempo. In quel periodo, infatti, Napoli non era esattamente il luogo più tranquillo del mondo.

Arriviamo così al gelido inverno del 47. Tutti, laici e fedeli, miscredenti e devoti, chiedono la restituzione del Tesoro, ma nessuno si muove. Troppo pericoloso, tra strade sbarrate, sentieri impervi, vagabondi affamati e briganti pronti ad arraffare le gemme, organizzare la missione nella Capitale per riportare a casa quel ben di Dio. Le autorità glissano, e poi ci vogliono troppi quattrini. Alla fine a togliere le castagne dal fuoco è proprio il Re di Poggioreale. Che piomba nel bel mezzo di una riunione di giunta e si offre volontario: «O tesoro o vaco a pigghià je stesso». Sguardi stupiti, colpi di tosse, imbarazzo. Alla fine il guappo convince tutti. Ma chi era Giuseppe Navarra? Camorrista d'altri tempi, orgoglioso monarchico, ex palombaro, si era arricchito con il mercato nero e altri affari illeciti, anche se cercava di accreditarsi come una sorta di Robin Hood napoletano. Era nato nel 1898, figlio di un merciaio del centro antico. Dopo la guerra riuscì a ottenere l'appalto per la demolizione degli edifici bombardati e pericolanti. Rivendeva roba vecchia e stracci, che raccoglieva per strada. Per liberare il Tesoro di San Gennaro, «prigioniero» in Vaticano, c'era bisogno di mani esperte. Le sue.
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«Il guappo è a suo modo il risultato di un mancato passaggio del camorrista al ceto dominante, è il segno della sconfitta della camorra come partito del popolino e deve la sua funzione alla lentezza dell'integrazione totale della plebe nella vita politica e sociale di Napoli» (Isaia Sales, La camorra, le camorre).
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In capo a due giorni parte la missione. Ecco la ricostruzione di Maurizio Ponticello, scrittore e massimo sangennarologo napoletano: «Navarra, armato di un lasciapassare per il ritiro dei beni firmato dal cardinale arcivescovo Alessio Ascalesi, alle prime luci del mattino si recò con un autista a Palazzo Donn'Anna per prelevare l'ottuagenario principe don Stefano Colonna di Paljano... Alle 11 erano già a Roma dal cognato del principe Colonna, il commendatore Diana, all'ambasciata d'Italia nel territorio del Vaticano. Poco dopo, chiuso in cassette sigillate, l'intero tesoro fu caricato sull'automobile di don Peppino» (Ponticello, Un giorno a Napoli con San Gennaro).

Il ritorno resterà memorabile, e farà germogliare nuove leggende. Qualcuno ha favoleggiato di un viaggio di ritorno durato dieci mesi, altri di un agguato preparato dagli uomini del clan dei Mazzoni sventato da Navarra grazie ai suoi contatti con la malavita. Lo stesso guappo non farà nulla per smentire questi racconti, anzi aggiungerà altre pennellate al dipinto. È certo, invece, che nei pressi di Capua l'auto di Navarra s'imbatté in un acquazzone memorabile e fu fermata a un posto di blocco dai carabinieri. Per evitare guai, e troppe spiegazioni, o rre «esibì la tessera di vicesindaco aggiunto di Napoli che gli avevano consegnato per ogni evenienza gli assessori» (Ponticello). A ogni modo, l'8 marzo del 47 l'auto con a bordo il principe e il guappo fa la sua ricomparsa davanti alle scale del Duomo.

Tanta gente, quella notte, fece festa a Navarra, che si legò anche al sindaco Giuseppe Buonocore eletto in città il 12 dicembre 1946. Per sé, in cambio del Tesoro, non chiese niente: solo la possibilità di baciare di tanto in tanto il sacro anello. «A metà tra folklore e comportamenti camorristici - scrive Gigi Di Fiore - Navarra ostentava ricchezza e potere: girava su una grande Lancia nera, la stessa auto appartenuta a Vittorio Mussolini. A lato, una scritta, Giuseppe Navarra, re di Poggioreale» (Di Fiore, Controstoria della liberazione). Nella sua casa di Poggioreale si fece costruire una specie di trono dove riceveva i suoi «sudditi»; portava sempre con sé la foto con dedica del Re Umberto II e concesse la sua unica intervista al giovane Enzo «zio» Perez. Al pari di Luigi Campoluongo detto Naso e cane - il vero «sindaco» del rione Sanità - anche Navarra si muoveva in un ambiente intriso di sottocultura ed illegalità; risolveva le controversie tra i cittadini del quartiere ergendosi a giudice del bene e del male, diventando così un punto di riferimento e, per certi versi, l'unica autorità riconosciuta.

La parabola del guappo si concluse a Poggioreale, per un'accusa di evasione fiscale. Tornato libero, continuò a fare il venditore di roba vecchia, fino alla morte. Dalla sua storia, nel 1961, è stato tratto un film Il Re di Poggioreale, diretto da Duilio Coretti. Nel ruolo di don Giuseppe Navarra, l'attore statunitense di origine italiana Ernest Borgnine.
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