Poesia in forma di vicolo,
nei luoghi di Bernari
tutta l'anima dei Quartieri

Poesia in forma di vicolo, nei luoghi di Bernari tutta l'anima dei Quartieri
di Vittorio Del Tufo
Domenica 14 Giugno 2020, 20:00
6 Minuti di Lettura
«Dio creò i Quartieri per sentirvisi lodato e offeso il maggior numero di volte nel minore spazio possibile»
(Giuseppe Marotta, L'oro di Napoli).
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Donn'Amalia a Speranzella, quanno frie paste crisciute, mena ll'oro int' a tiella, Donn'Amalia a Speranzella. Agli occhi del grande poeta Salvatore Di Giacomo, e al suo ghiotto palato, via Speranzella era soprattutto luogo di meravigliosi effluvi, sapori inconfondibili, paradisiache zeppole. Amava così tanto la friggitoria di Donn'Amalia, don Salvatore, da dedicarle una poesia contenuta nella raccolta Poesie e canzoni. La strada che ospitò fino agli anni 30 la friggitoria che faceva leccare i baffi al poeta è via Speranzella, che corre parallela a Toledo assecondandone il percorso da via Sergente Maggiore fino a via Simonelli, alle spalle di piazza Carità.

Come la strada gemella, vico Lungo Gelso, anche via Speranzella taglia come una lama i Quartieri Spagnoli, e come una lama penetra nella loro anima. Speranzella è il nome dolcissimo che i napoletani diedero alla storica chiesa di Santa Maria della Speranza, affacciata sui vicoli stretti come una promessa di redenzione, più nota ancora con il nome di Santa Rita della Speranzella, perché qui si venerava la santa delle cause perse, o dei miracoli più complicati, Rita da Cascia. A fondarla fu nel 1540 un chirurgo spagnolo, tale Francisco Cuevas, che donò la propria abitazione per trasformarla in convento, e dal suo connazionale Juan de Ciria Portocarrero. Una ventina d'anni dopo fu ceduta a donna Gerolama Colonna, vedova del duca Camillo Pignatelli di Monteleone, e verso fine secolo passò nelle mani dei fratelli Fernando e Francisco Segura, appartenenti all'ordine dei Carmelitani, anch'essi spagnoli. Assidui frequentatori della chiesa furono re Ferdinando IV e sua moglie Maria Carolina. Sull'altare maggiore, realizzato dal grande Cosimo Fanzago tra il 1638 e il 1640, è collocata una tela di Cesare Fracanzano, raffigurante la Madonna della Speranza, Rita da Cascia, che ha dato il nome alla chiesa e alla strada.
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La Speranzella ha dato il nome anche a uno dei più bei romanzi ambientati a Napoli nell'immediato Dopoguerra, Speranzella, appunto, di Carlo Bernari, incentrato su due figure femminili, donna Elvira

a caffettera e la giovane Nannina, che stanca di lavorare per il contrabbando, nella Napoli del 1946, trova rifugio e aiuto presso il bar Babilonia, in via Speranzella. Poeta, saggista, drammaturgo, sceneggiatore e giornalista, Bernari è stato uno dei maggiori narratori meridionali ed è considerato - con Tre operai, del 1934, e lo stesso romanzo Speranzella, del 1949 - un precursore del neorealismo. Bernari era nato nel 1909 da una famiglia di origine francese (il padre dirigeva un'azienda per la tintura dei tessuti) e a Napoli, adolesciente inquieto e inadatto alle regole scolastiche, aveva fondato, con Guglielmo Peirce e Paolo Ricci, un movimento culturale d'opposizione detto Udaismo (Unione Distruttivisti Attivisti). Poi mollò tutto e se ne andò in Francia, dove si avvicinò all'avanguardia e al surrealismo di André Breton.
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«Mastrovincenzo buongiorno»
«Salute a voi don Luì»
«Che si dice? Avete dormito stanotte?»
«Don Luì non mi sfottete»
«E che diavolo... Non dormite mai?»
«Ho scapezzato»
«Sulla sedia?»
«Sissignore, sulla sedia»
«Posso?»
«Favorite».
(Carlo Bernari, Speranzella)
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Speranzella, ambientato durante l'occupazione degli Alleati, è un romanzo corale, scritto nello stesso periodo di Napoli milionaria di Eduardo. I personaggi di Bernari si muovono nel palcoscenico urbano che, a giudizio di un altro grande scrittore, Giuseppe Marotta, sarebbe stato creato da Dio «per sentirvisi lodato e offeso il maggior numero di volte nel minore spazio possibile». Spiccano su tutti le figure dell'anziana Elvira, che si affanna fino all'ultimo per la causa monarchica, e della giovane Nannina, che cerca di rifarsi una nuova vita cercando rifugio proprio dalla Caffettèra. La vera protagonista resta comunque via Speranzella, questo lungo, stretto e variopinto vico della città che taglia in due i Quartieri verso Toledo. Un microcosmo pulsante di varia umanità che Bernari descrivere senza concessioni alla facile pietà o al macchiettismo. Come hanno scritto Aurora Capotardo e Francesco D'Episcopo nel bel libro «Napoli: luoghi letterari», edito da Iuppiter, «la città si trasforma in quello che in effetti è: violentata da secolari ingiustizie e con un piede ancora nella barbarie, nell'idolatria e nella superstizione».
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Negli stessi anni in cui Bernari ambientava il suo romanzo in via Speranzella, Santa Rita diventava compatrona della città con l'amato San Gennaro, a testimonianza di una devozione ininterrotta, profonda e a prova di distanza geografica (Santa Rita morì il 22 maggio 1457 a Cascia e i suoi resti sono conservati nella basilica della cittadina umbra). Il rito popolare della processione dedicata alla santa è antichissimo e solo negli ultimi anni, dopo un lungo stop, era tornato ad animare le vie e le viuzze dei Quartieri. Quest'anno, a causa dell'emergenza sanitaria, la statua della santa taumaturga (realizzata nell'800) resterà nel luogo che da anni la custodisce: la chiesa di Santa Rita alla Speranzella, una chiesa spagnola nel cuore dei Quartieri Spagnoli.

Nel caleidoscopico microcosmo dei Quartieri sacro e profano convivono da secoli, incontrandosi a ogni angolo di strada. Alla preghiera della fecondità - dal substrato pagano e misteriosamente arcaico, rappresentato dal culto di Maria Francesca dalle Cinque Piaghe - si associa il ricordo di un'antica figura femminile, la mammazezzella, ovvero la nutrice, il mestiere svolto dalle donne prosperose, per lo più contadine, che, per conto di altre donne, ne accudivano, o addirittura allattavano, i figli. Le prime erano chiamate Balie asciutte, le seconde Balie di latte: indispensabili, queste ultime, per le donne che non potevano allattare fino allo svezzamento. Il ricorso a questa figura andò via via scomparendo con l'arrivo del latte in polvere, ma la memoria delle mammazezzelle sopravvive nell'opera dello street artist Salvatore Iodice che raffigura una verace balia che allatta i neonati. Il murales si trova proprio in vico Speranzella, nei pressi dell'abitazione di una nota balia del passato.
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In via Speranzella, nel palazzo ad angolo con via San Matteo, abitò per un breve periodo anche Giacomo Leopardi, accompagnato dall'inseparabile Antonio Ranieri. I due amici vi restarono poco più di un mese, dall'ottobre al novembre 1833. Non c'è nulla - non una lapide, un minimo segno - che ricordi il passaggio in via Speranzella del grande poeta. La «dolcezza del clima» e l'indole «amabile» degli abitanti non bastarono a diradare le ombre che avvolgevano, da tempo, la figura di Leopardi. Ammalato di tisi e addirittura sofferente di allucinazioni, stando al racconto di Ranieri. Napoli, quando Leopardi viene ad abitarvi, era una città di 360mila abitanti. Una grande capitale europea: solo Parigi, Londra e San Pietroburgo contavano più abitanti. Leopardi ne era attratto morbosamente, pur definendola, in una lettera al padre Monaldo, una città di «lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e baroni fottuti, degnissimi di spagnuoli e forche». Da via San Mattia il poeta si trasferì più su, verso il colle di San Martino, perché immaginava che lì l'aria fosse più salubre. Il secondo indirizzo napoletano è Palazzo Cammarota, al numero 35 di via Santa Maria Ognibene. L'autore del Passero Solitario vi resterà fino al maggio del 1835. Quando, sempre con Antonio Ranieri, approdò al vico Pero nel quartiere Stella, dove morì il 14 giugno 1837, durante un'epidemia di colera.
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