Sempre caro mi fu quel vico Pero: il giallo del sepolcro vuoto

Sempre caro mi fu quel vico Pero: il giallo del sepolcro vuoto
di Vittorio Del Tufo
Domenica 3 Giugno 2018, 20:00
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«Addio, Totonno, non veggo più luce»
(Le ultime parole di Leopardi all'amico Antonio Ranieri, in punto di morte, il 14 giugno 1837).

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Nel maggio 1837 a Leopardi resta solo un mese di vita. Il Poeta scrive al padre Monaldo dicendosi «persuaso ormai dai fatti di quello che ho sempre preveduto, che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lontano». Due anni prima Leopardi si era trasferito al numero 2 di vico Pero, nel quartiere Stella, in un appartamentino al secondo piano, allora circondato da orti e campi, che si affacciava su via Santa a Teresa degli Scalzi, che a quell'epoca si chiamava ancora via Nuova Capodimonte.

Da quella casa con le pareti dipinte di giallo, di verde-azzurro e di turchino, il Poeta, quando la salute malferma glielo permetteva, s'incamminava, curvo, per una certa Napoli a lui cara, avvolto come al solito nel vecchio soprabito verde col bavero alto. I passi, raccontano i biografi, lo portavano a compiere sempre lo stesso itinerario. Il Caffè delle Due Sicilie, in via Toledo, dove assaporava una granita o un sorbetto, che adorava; i Coloniali del barone Vito Pinto, al largo della Carità, dove sorseggiava il caffè o, golosissimo com'era, gustava i famosi tarallini zuccherati del barone; la bottega dell'editore Starita, in vico della Quercia, che aveva pubblicato le ultime versioni dei Canti e delle Operette Morali; o la pasticceria di Pintauro, in via Santa Brigida, dove alternava le sfogliatelle ricce e le frolle, adorandole entrambe.

Quella di vico Pero - dove Leopardi morì, il 14 giugno 1837, fu l'ultima dimora napoletana del Poeta di Recanati. Dall'ottobre 1833 al giugno 1837 Giacomo Leopardi abitò a Napoli, cambiando più volte appartamento e trascorrendovi l'ultima parte della sua vita. La prima dimora napoletana era al secondo piano di via San Matteo 88, Palazzo Berio, a pochi passi da via Toledo: l'autore del Passero Solitario vi soggiornò fino al dicembre 1833. La «dolcezza del clima» e l'indole «amabile» degli abitanti non bastarono a diradare le ombre che avvolgevano, da tempo, la figura del Poeta. Ammalato di tisi e addirittura sofferente di allucinazioni, stando al racconto dell'inseparabile Antonio Ranieri. Napoli, quando Leopardi viene ad abitarvi, è una città di 360mila abitanti. Una grande capitale europea: solo Parigi, Londra e San Pietroburgo contano più abitanti. Leopardi ne è attratto morbosamente, pur definendola, in una lettera al padre Monaldo, una città di «Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e baroni fottuti, degnissimi di spagnuoli e forche». Da via San Mattia il Poeta si trasferisce più su, verso il colle di San Martino, dove immagina che l'aria sia più salubre. Il secondo indirizzo napoletano è Palazzo Cammarota, al numero 35 di via Santa Maria Ognibene, nel cuore dei Quartieri Spagnoli. Leopardi vi resterà fino al maggio del 1835. Quando, con l'inseparabile Antonio Ranieri, approda al quartiere Stella.

Ed eccoci al vico Pero, la terza e ultima residenza napoletana di Leopardi. Con una parentesi: dopo l'aprile 1836 il Poeta abitò per alcuni mesi nella villa dell'avvocato Ferrigni, cognato di Antonio Ranieri, tra Torre del Greco e Torre Annunziata, in un'«allegra e saluberrima stanza» all'ombra di Sterminator Vesevo. È Villa Ferrigni, oggi chiamata Villa delle Ginestre perché vi fu composta La Ginestra. Quando, pochi mesi prima di morire, Leopardi («Il colosso della nostra immaginazione») viene invitato da Basilio Puoti a visitare la sua scuola, Francesco De Sanctis, giovane allievo, lo ricorda così: «In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s'era concentrata nella dolcezza del suo sorriso». Poco dopo, De Sanctis seppe che il grande poeta era morto. «Come, quando, dove non si sapeva. Pareva che un'ombra oscura lo avvolgesse e ce lo rubasse alla vista» (De Sanctis, La giovinezza).

L'«ombra oscura» che avrebbe avvolto gli ultimi istanti di vita e l'ultima dimora di Giacomo Leopardi sono al centro di un libro ristampato, proprio di recente, dall'editore Guida, Un giallo a Napoli, scritto dalla studiosa di temi leopardiani Loretta Marcon. È un libro denso e documentatissimo, che ruota attorno al doppio mistero della morte e della sepoltura di Giacomo Leopardi. Leopardi, dunque, morì il 14 giugno 1837. Quale fu la causa del decesso? Il certificato medico parlò di «idropericardia», ma non è mai stata esclusa l'ipotesi del colera. La terribile epidemia aveva investito la città, in due riprese, dall'ottobre 1836 all'ottobre 1837, mietendo circa 20mila vittime. Il colera, come racconta bene la Marcon, fece da lugubre sfondo all'ultimo atto della vita di Leopardi.

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Scrive Pietro Citati che il Poeta «morì con moltissima grazia, e in tono minore, come in tono minore aveva vissuto quasi tutta la sua vita, celando o velando i dolori, le angosce, la desolazone, le passioni, la solitudine, il dono diessere un genio immenso» (Citati, Leopardi). Se incerte sono le cause reali della morte del Poeta, ancora avvolto nel mistero è il destino delle sue spoglie mortali. Secondo la versione ufficiale, Ranieri riuscì a ottenere, grazie all'interessamento del ministro della polizia, che le spoglie dell'amico non venissero gettate nella fossa comune dei colerosi, ma inumate nella cripta e poi nell'atrio della chiesa di San Vitale, a Fuorigrotta. Ma quando, anni dopo (il 21 luglio del 1900) venne effettuata la ricognizione dei resti nella chiesa di San Vitale, furono trovati solo pochi frammenti di ossa difficilmente attribuibili al grande recanatese. Del teschio, nessuna traccia. La bara, inoltre, era troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con «doppia gibbosità». Apparve subito chiaro che la cassa era stata manomessa, il cadavere trafugato. Per farne cosa?

Il mistero - è l'ipotesi avanzata da Loretta Marcon - potrebbe essere legato alla grande passione che Antonio Ranieri nutriva per la medicina e, in particolare, per l'anatomia. Già all'indomani della scoperta della bara vuota prese corpo il sospetto che la salma del Poeta fosse stata trafugata e occultata (dove? Nella stessa abitazione di vico Pero?) per essere sottoposta a studi di frenologia. Ovvero la dottrina secondo la quale tutte le funzioni psichiche avrebbero una ben definita localizzazione cerebrale, cui corrisponderebbero dei rilievi sulla teca cranica, che consentirebbero la determinazione della loro esistenza, del loro sviluppo, e conseguentemente dei caratteri psichici dell'individuo.

Ciò non impedì, tuttavia, che i presunti resti di Leopardi venissero traslati, nel 1939, nel Parco Vergiliano di Piedigrotta, accanto a un'altra tomba vuota, quella del grande Virgilio. La sera del 22 febbraio 1939 «un corteo illuminato con fiaccole partì in processione da San Vitale e si diresse al Parco Vergiliano con quella cassa che la maggior parte delle persone riteneva contenesse i resti di Giacomo Leopardi» (Marcon, Un giallo a Napoli). Nel parco della Tomba di Virgilio venne traslata anche la lapide originale. Fu una strepitosa messinscena. Da quel giorno il popolo napoletano, e non solo, cominciò a tributare il suo omaggio ad una bara vuota.

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Ancora oggi nessuno può affermare con margini di certezza dove siano i resti mortali di Leopardi. Su questo mistero si sono esercitati negli anni numerosi studiosi, accademici, scrittori, giornalisti. L'ipotesi avanzata da Loretta Marcon, autrice di numerose opere dedicate al genio di Recanati, è che Ranieri, con la complicità dei medici, abbia escogitato la farsa della bara vuota, per trasportare egli stesso il corpo di Leopardi, con la complicità dei medici con cui era in contatto, all'ospedale degli Incurabili, affinché fosse studiato per caprire i segreti della sua impareggiabile mente. Del cadavere, poi, non si seppe più nulla. Probabilmente fu abbandonato nel cimitero delle 366 Fosse, ai piedi della collina di Poggioreale.
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