Il messere capriccioso
e il palazzo che cammina:
via Duomo, che storie!

Il messere capriccioso e il palazzo che cammina: via Duomo, che storie!
di Vittorio Del Tufo
Domenica 7 Giugno 2020, 20:00
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«O munaciello: a chi arricchisce e a chi appezzentisce»
(proverbio napoletano).
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Viveva a Napoli, nel lontano 1488, un messere dai modi spicci. Voleva una cosa e se la prendeva. Aveva amicizie illustri, e una era la più illustre di tutte: questo messere, infatti, era il padre del segretario di fiducia del re. Il re, a quei tempi, era Alfonso II d'Aragona e un giorno il messere gli disse:

«Maestà, voglio che il mio palazzo diventi il più bello di Napoli, ma perché questo accada ho bisogno di ampliarlo, e di diventare proprietario del grande giardino del quale è confinante».
«Dimmi - gli rispose il re - chi è il proprietario di questo giardino?».
«Si chiama Francesco Scannasorice, maestà, e non vuole venderlo a nessun prezzo!».

Allora il sovrano, che non amava essere contraddetto, acquistò direttamente il terreno per poi regalarlo al padre del suo particolar servidore. Il povero Scannasorice dovette ingoiare il rospo. Se si fosse ancora rifiutato di cedere la proprietà avrebbe passato un brutto quarto d'ora.

Il palazzo in questione è quello che si vede oggi all'inizio di via Duomo, poco dopo piazza Nicola Amore. Il messere si chiamava Angelo Como e l'edificio, ancora oggi uno dei più belli di Napoli, porta il suo nome. Ma per gli studiosi, gli architetti e gli amanti delle memorie napoletane è più conosciuto come «il palazzo che cammina».
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Del progetto si occupò una vera archistar di fine 400, Giuliano da Maiano, il cui nome fu suggerito ad Angelo Como dal sovrano in persona. È lo stesso architetto che aveva già eretto per il Duca di Calabria, il futuro re Alfonso II, uno dei suoi più celebri casini di delizia, la sontuosa villa di Poggio Reale, che avrebbe poi dato il nome al quartiere. Alla fine, dunque, il capriccioso messere riuscì a ottenere ciò che voleva. Una dimora che per la sua magnificenza veniva ammirata e apprezzata anche fuori dal Regno. Certamente ne fu colpito, e molto, Filippo Strozzi, un ricco mercante appartenente a una delle famiglie più facoltose di Firenze, il quale, al ritorno nella sua Firenze dopo un lungo soggiorno a Napoli, ordinò ai suoi architetti, Benedetto da Maiano e Giuliano da Sangallo, di costruire lo stupendo Palazzo Strozzi, una delle più belle dimore rinascimentali del mondo.

Ma la felicità a questo mondo dura poco, e così, dopo la caduta della dinastia aragonese, la famiglia Como cadde in disgrazia. Messer Angelo morì ai primi del Cinquecento, i suoi quattro figli rimasero padroni del palazzo ma poi, litiga oggi, litiga domani, non riuscirono a mettersi d'accordo sul suo uso e lo divisero in appartamenti. Nel 1587, dopo alcuni passaggi di mano, l'edificio venne venduto alla famiglia de Bottis, la quale, tuttavia, se ne sbarazzò molto presto, rivendendolo alla Congregazione di Santa Caterina da Siena.

Per quale motivo una delle famiglie più facoltose della città decise di punto in bianco di cedere il prestigioso edificio? Per un motivo molto semplice: quel palazzo faceva paura!
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Risalgono a quel periodo le prime apparizioni del munaciello, il perfido spiritello della tradizione popolare, di solito rappresentato come un ragazzino deforme o una persona di bassa statura, abbigliato con un saio e fibbie argentate sulle scarpe. Per gli abitanti del quartiere non c'era alcun dubbio: il palazzo era luogo di apparizioni e di inquietanti presenze. Non solo i de Bottis, ma anche i successivi proprietari decisero di sbarazzarsi della dimora. E quando, nel 1824, Palazzo Como finì nelle mani di un ordine di monache, queste dopo soli due anni furono costrette ad andare via «a causa - come raccontano Antonio Emanuele Piedimonte e Arianna Scognamiglio nel libro Napoli. Uomini, luoghi e storie della città smarrita - di alcuni misteriosi crolli».
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Si deve alla lungimiranza di un principe, Gaetano Filangieri jr - nipote del grande filosofo illuminista Gaetano Filangieri, autore della celebre Scienza della legislazione - la trasformazione in museo del quattrocentesco edificio di via Duomo. Il principe di Satriano, nel 1881, propose al sindaco Girolamo Giusso di raccogliere a Palazzo Como tutte le sue straordinarie collezioni d'arte. A quell'epoca, di quel capolavoro rinascimentale, non rimaneva che la splendida facciata in bugnato e i muri laterali. All'interno, rovina e abbandono. Nasce così l'idea del museo civico Filangieri: i lavori, finanziati dal Principe, terminarono nel 1888.

Il principe di Satriano ebbe indubbiamente il merito di salvare Palazzo Como dalla distruzione che molti davano per imminente. Si era, infatti, nel bel mezzo degli interventi urbanistici del Risanamento e il piccone non risparmiava né i gioielli d'arte né i luoghi della memoria. Il piccone del Risanamento, in particolare, avanzava verso via Duomo, e Palazzo Como rischiava di intralciare l'ampliamento di quella fondamentale arteria. Che fare? Il rischio abbattimento fu scongiurato grazie alla sensibilità di numerosi intellettuali dell'epoca ma soprattutto grazie allo scatto d'orgoglio degli architetti, i quali proposero una soluzione geniale: spostare il palazzo, farlo slittare letteralmente indietro di una ventina di metri. Come ricorda Aurelio De Rose nel libro I palazzi di Napoli, un lavoro quasi analogo di abbattimento e ricostruzione era stato effettuato qualche secolo prima con il Palazzo Sanseverino, «con il particolare ripristino dello stesso bugnato, sia sulla nuova facciata che nelle parti laterali della chiesa del Gesù Nuovo».

Pur di utilizzare la struttura come sede di esposizione della propria collezione d'arte, Gaetano Filangieri si sobbarcò le spese di smontaggio e rimontaggio dello stabile. Nacque in quegli anni la definizione popolare di «palazzo che cammina». Nacque, soprattutto, uno splendido museo che rispecchiava il gusto e la cultura di Gaetano Filangieri jr, con oltre tremila oggetti di varia provenienza e datazione. Nel palazzo appartenuto al messere capriccioso è raccolta una splendida collezione pittorica che raccoglie numerosi dipinti del Seicento napoletano, tra cui opere di Jusepe de Ribera, Luca Giordano, Andrea Vaccaro, Battistello Caracciolo e Mattia Preti. E ancora maioliche, porcellane, biscuit, avori, armi e armature, medaglie, sculture dal XVI al XIX secolo, pastori presepiali del XVIII e XIX secolo ed anche una biblioteca dotata di trentamila volumi e un archivio storico documenti dal XIII al XIX secolo.

Il 30 settembre del 1943 una squadra di guastatori tedeschi incendiò la villa Montesano di San Paolo Bel Sito dove, per prevenire i danni di guerra, erano state portate l'anno precedente le opere di maggior pregio del museo insieme ai documenti più preziosi dell'Archivio di Stato di Napoli, allora diretto da Riccardo Filangieri che contemporaneamente ricopriva la carica di direttore del museo. Del patrimonio del museo si salvarono circa quaranta dipinti, mentre andarono distrutti due ritratti d'uomo di Botticelli, una Deposizione di Francesco Solimena e una Educazione della Vergine di Bernardino Luini. Per il patrimonio artistico italiano fu un colpo terribile. Ma l'arte risorge sempre dalle sue ceneri e il museo lentamente si riprese, anche grazie alle numerose donazioni private, mentre il palazzo di via Duomo continua a tramandare il ricordo di un messere capriccioso, di un principe lungimirante e di una classe intellettuale coraggiosa che, negli anni del piccone facile, ne impedirono lo sventramento.
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