Dalla penna alla spada:
quando i giornalisti
si sfidavano a duello

Dalla penna alla spada: quando i giornalisti si sfidavano a duello
di Vittorio Del Tufo
Domenica 27 Ottobre 2019, 20:00 - Ultimo agg. 28 Ottobre, 06:10
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«Se i napoletani sono neri, sono nero anch'io»
(Gino Palumbo)
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Erano gli anni mitici dell'Angiporto, erano gli anni d'oro di Gino Palumbo. Capitava, a quell'epoca, che un giornale nascesse in una sola notte. Sport Sud nasce la notte tra il 25 e il 26 ottobre 1953, nell'ufficio di Egidio Stagno, amministratore delegato del Mattino. Da tempo Palumbo chiedeva a Stagno di dedicare più spazio allo Sport, nonostante le pagine di Sport del Mattino fossero già aumentate. Gino è bulimico di retroscena, approfondimenti, interviste, racconti dagli spogliatoi. Vorrebbe ancora più spazio per sviluppare gli argomenti, è lo stesso desiderio dei tifosi. Sono gli anni di Jepson, costato 105 milioni, cifra record. Quando il campione scivola, la tribuna del Vomero grida: «È caduto o Banc e Napule».

Racconterà Palumbo: «Io e Stagno ci guardiamo negli occhi: Un giornale nuovo? E facciamolo. Ma quando? Adesso, subito. I colleghi Enrico Marcucci, Ciro Buonanno, Franz Guardascione, Riccardo Cassero esprimono con lo sguardo il loro consenso. L'avvocato Stagno è perentorio: Mercoledì voglio il giornale in edicola!. (Gino Palumbo,

Nove colonne in prima, l'ultima intervista, a cura di Enrico Parodi). Il proto Edoardo Ruggero parte nella notte alla ricerca di un grafico che disegni la testata: lo trova, è Renato Nappa. E Sport Sud prende il largo: 6 pagine, 25 lire. Il settimanale del martedì avrà una vita lunga e prestigiosa, una vera scuola per giovani cronisti e polemisti di talento. Palumbo lancia il concorso «L'Ondina di Sport Sud». L'idea nasce alle tre di notte, in redazione, in un momento di respiro prima di attaccare l'ultima edizione, quella di città, con le ultimissime. Nasce lo slogan «La più sportiva tra le più belle».

Dalle colonne del Mattino, intanto, Palumbo sollecita il Calcio Napoli a dotarsi di una struttura societaria più solida e moderna. Comincia in quegli anni una dura polemica con il giornale concorrente, il Roma, quotidiano di Achille Lauro, presidente del Napoli e sindaco della città. Palumbo finisce nel mirino di un nobile fumantino, Antonio Scotti di Uccio, capo della redazione sportiva del Roma. Nel 1959 la disputa a distanza si conclude con una sfida a duello: l'ultimo duello che si ricordi nella storia del giornalismo napoletano.

La miccia che innesca lo scontro è proprio un articolo di fondo su Lauro. Un sindaco-presidente fin troppo sicuro di sé, presuntuoso, arrogante. Quando Piero Ottone gli chiede un'intervista per il Corriere della Sera, o sindaco si fa trovare a torso nudo, dietro la scrivania. Il Mattino sottolinea gli errori della società, ne denuncia l'alterigia. Il Roma replica con feroci corsivi ai corsivi di Palumbo, che viene definito «sciacallo». Gino risponde per le rime. Un giorno il capo dello Sport trova nella casella della posta due biglietti da visita: sono quelli di Antonio Pugliese (caporedattore del Roma) e Pasquale Scopece (eccellente schermidore). Lo invitano a nominare due padrini. Antonio Scotti, offeso da un articolo di Palumbo, chiede riparazione. Padrini? Duello? Ma chist over sta facenno? Gino è costretto a nominare a sua volta due padrini: Arturo De Vecchi, schermidore olimpico, e il caporedattore Franz Guardascione. Palumbo - non si sa mai - prende addirittura lezioni di spada, alla palestra Partenope, con il maestro Mimmo Conte. Alla fine il confronto avviene davvero. All'alba del 10 giugno 1959, in un viottolo di campagna a Quarto. Dopo un paio di riprese Palumbo tocca con la lama Scotti sul braccio, esce una goccia di sangue. Intervengono i padrini di lui, evitando il peggio: «La sfida è al primo sangue, la consideriamo conclusa». Interviene anche Nello Oliviero, medico della disfida e cugino di Palumbo.: «È vvulite fa accirere a stì dduje? Io mo chiudo a cascettella (del pronto soccorso) e me ne vado». Finisce con un verbale al circolo della stampa, seguito da un caffè di gruppo. Ma la polemica intorno al Napoli non si placa.
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Sarà quasi-duello anche con il rivale di sempre, Gianni Brera, che era vagamente razzista e disprezzava i meridionali (non disprezzava però la cucina napoletana, che onorava durante chilometriche cene da Dante e Beatrice, in piazza Dante, assieme all'amico di sempre, Guido Prestisimone). Palumbo e Brera non incrociarono le spade ma i pugni: accadde un giorno nella tribuna stampa di Brescia, quando, per difendere l'amico Antonio Ghirelli, apostrofato come un Pulcinella, Palumbo diede un ceffone al padanissimo Brera (il quale sosteneva che era difficile per il Napoli raggiungere risultati di rilievo per colpa dello scirocco!) e fu ricambiato con due pugni ben mirati. Scriverà il grande Gioann: «Anziché mandargli i padrini, lo ricambiai subito con due precisi messaggi à la figure (che è la faccia, la faccia in francese, non il corpo, o miei cari carissimi cronisti di boxe). La sera andò al Santa Lucia (un ristorante di Milano, ndr) con perfidi occhiali neri sugli occhi abbottati e disse affranto ai Legnani (i proprietari, ndr): il vostro amico Brera!».
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Giornalismo (e scazzottate) d'altri tempi. Parafrasando von Clawsevitz - e lo stesso Brera - potremmo dire dire che a quei tempi la boxe era una continuazione del giornalismo con altri mezzi. Comunque, finì bene. Palumbo rispettava Brera, ma da lui lo divideva una diversa concezione del calcio. Prediligeva il gioco d'attacco, il suo eroe era Gianni Rivera, e in difesa di Rivera Palumbo solleverà la polemica che investì la nazionale italiana nel 1970, allorché Gianni Rivera fu lasciato in panchina fino all'84' minuto della finale del Campionato del mondo. Ma Palumbo, soprattutto, soffriva il razzismo strisciante di Brera, che lo definiva un «napoletano bianco». Se i napoletani sono neri, gli rispose, sono nero anch'io. Quando fecero la pace (fu in occasione della morte di un fratello di Brera) non lo dissero a nessuno, restò un segreto. I grandi uomini, nello sport come nella vita, dimenticano le piccole miserie terrene, non si siedono sulla riva del fiume secondo il consiglio cinese. Così, il 30 settembre 1987, all'indomani della morte di Palumbo, Brera dedicò a Palumbo un ricordo d'autore che andrebbe letto sui banchi di scuola. «Ginetto si confermò metodico ed accorto; probo e lavoratore; diligente e perfino pignolo. Concepì una sua spicciola filosofia costantemente rivolta ai lettori possibili, da attirare con lusinghe sottili: mai affermare nulla che sembri un'opinione: invitare peraltro il lettore a manifestare la sua e difenderla poi a spada tratta. Ciascuno ha una sua etica, una sua morale, una sua tecnica espressa traverso le opere. Gino Palumbo amava il suo mestiere fino a parlarne come un antico paladino in trionfanti ottave». Capolavoro. Per noi cronisti infanti, anziché trionfanti, un pezzo da incorniciare e mandare giù memoria.
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Dopo Palumbo, al Mattino, il comandante dello Sport diventerà Riccardo Cassero. Culo di pietra, lavoratore instancabile, mago dell'impaginazione, conoscitore straordinario della macchina del giornale. Autore della famosa espressione: è fernuta a zoccola dint' o ragù. Traduzione: per una disattenzione abbiamo rovinato tutto. Un portento in maniche di camicia, al cui comando si forgia la migliore redazione sportiva d'Italia: Giuseppe Pacileo era il professore, la prima firma, il giornalista raffinatissimo e colto che parlava il russo alla perfezione e conosceva ogni nota di Verdi a memoria. Romolo Acampora era il vice (diventerà il capo nell'86), Lello Barbuto (il papà del nostro Paolo) era il grande esperto di basket. E poi Mario Caruso, Maurizio Mendia, Sergio Troise, Carlo dell'Orefice, Massimo Corcione, Ciccio Assini, Gianni Infusino, Franco Esposito, Gegè Maisto, Bruno Buonanno, Giuseppe Bugnati, Enzo Casciello. Una squadra di fuoriclasse, nel solco della lezione di Gino Palumbo. Il Mattino in quegli anni era il pozzo delle meraviglie, la vetta più alta, il sogno di chi ha nel sangue il mestiere. Il mondo è cambiato, i giornali sono cambiati, oggi molti dei ragazzi di Gino Palumbo non ci sono più. Ma hanno lasciato tracce ovunque, luminose scie: le loro vite (parafrasando Carrère) sono anche le nostre.

(2/ fine)
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