«Io, guarito dal linfoma
a chi ora ha paura dico
di avere testa e coraggio»

«Io, guarito dal linfoma a chi ora ha paura dico di avere testa e coraggio»
di Giuseppe Pecorelli
Giovedì 12 Marzo 2020, 06:50 - Ultimo agg. 09:52
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Negli ultimi tempi, negli interventi pubblici, nelle celebrazioni, nelle attività portate avanti nella parrocchia salernitana di San Giuseppe, l’arcivescovo emerito Luigi Moretti era sembrato in buona forma e a qualcuno, in privato, confidava di essere riuscito a tornare a guidare. Lo sentiamo ieri mattina, rigorosamente al telefono, come prescrivono le norme contro il dilagare del coronavirus, e la prima domanda è sulla salute. Ad agosto scorso, aveva detto apertamente che gli era stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin, malattia che lo costringeva ad affrontare un ciclo di chemioterapia.

Eccellenza, come sta? 
«Bene, bene. Lunedì, all’ospedale Gemelli di Roma, sono stato sottoposto a una visita conclusiva del ciclo di cure e pare che sia guarito dal linfoma. A giugno avrò altri controlli, però va bene. Non vorrei che diventasse occasione di clamore, non è mia intenzione gridarlo dalle terrazze però credo che, soprattutto ora, anche la mia esperienza possa dare la forza di guardare la vita per quello che è. La storia, come si dice a Roma, dà qualche “sganassone”. Non sconfortiamoci, ma andiamo avanti con coraggio, con tenacia. Pensiamo che ormai l’uomo possa controllare tutto con la scienza e la tecnica, ma ci accorgiamo che non è così. L’altro giorno, in ospedale, ho visto l’impegno dei medici e una situazione delicata per tutti».
Cosa ha provato quando ha appreso la diagnosi della malattia?
«Ho preso atto che cambiava la vita e che, da allora, sarebbe iniziato un cammino diverso. Ma sempre con molta serenità e fiducia. Già avevo dato le dimissioni da arcivescovo ed ero consapevole di vivere una condizione diversa rispetto a prima».
Ha mai avuto paura?
«Paura no. Sono sempre stato molto sereno cercando di vivere al meglio la vita che potevo fare. Devo dire che mi ha aiutato molto stare qui a San Giuseppe. Il fatto che mi abbiano chiamato da subito “don Luigi” mi ha fatto molto bene. La considero una grazia. L’ho detto sin dall’inizio: mi sono sentito in un “mare di preghiere”. Tanti mi sono stati vicino: sacerdoti, laici. E monsignor Andrea Bellandi, il mio vescovo, con cui ho un vero rapporto di comunione. Qui sono accanto alla gente e posso vivere relazioni non formali. Ho riscoperto la dimensione familiare». 
Stiamo vivendo un tempo difficile in cui, per contrastare l’epidemia, la gente è obbligata a stare in casa e si è arrivati a sospendere le celebrazioni. Un tempo, dice qualcuno, si faceva il contrario: si tenevano processioni, s’intensificava la preghiera. 
«Il diffondersi del virus è un pericolo da prendere sul serio per evitare che vada fuori controllo. Viviamo con serenità queste occasioni cercando di recuperare anche altro. Per i preti, non celebrare pubblicamente la messa può essere strumento per riscoprire il senso della comunità. E anche la gente, privata della celebrazione, possa riscoprire il valore di quello che manca. Certo, i primi cristiani dicevano “senza la domenica, e cioè senza l’Eucarestia, non possiamo vivere”. Anche questo ci aiuterà a ricostruire un rapporto non superficiale con il Signore. Aggiungo che oggi abbiamo più conoscenze di qualche secolo fa. Dobbiamo usare la testa. Non credo piaccia al Signore non adeguarsi e mettere in pericolo le persone. La vita non si può mai buttare via. Recuperiamo piuttosto il senso della preghiera e la lettura del Vangelo per riscoprire, quando tutto sarà finito, la bellezza della comunità».
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