Morto dopo un Tso, il legale:
dopo 5 anni giustizia negata

Morto dopo un Tso, il legale: dopo 5 anni giustizia negata
di Pasquale Sorrentino
Venerdì 25 Settembre 2020, 06:35 - Ultimo agg. 19:29
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Cinque anni senza risposte. Ci sono colpevoli per la morte di Massimiliano Malzone, il 39enne deceduto nel giugno del 2015 dopo un Tso? Dopo cinque anni non si sa se può cominciare il processo. Nei giorni scorsi, il gip Sorrentino del Tribunale di Lagonegro, doveva decidere sul rinvio a giudizio di 7 medici indagati per la morte del giovane di Montecorice, avvenuta nel Centro di Igiene Mentale dell’allora ospedale di Sant’Arsenio dove era stato ricoverato in regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio. L’avvocato Capano, che tutela la famiglia, si era opposto all’archiviazione del caso, presentando una nuova perizia. Tra i temi trattati la mancanza di controllo sul paziente nonostante il cocktail di farmaci somministrato, con un elettrocardiogramma effettuato in circa due settimane. Il gip ha richiesto un’integrazione istruttoria, rinviando al 27 gennaio del 2021 la decisione sul rinvio a giudizio. Con l’emergenza Covid, si sono allungati i tempi. «È un esempio di degrado della nostra giustizia - ha denunciato Capano - dopo cinque anni non si sa se ci sarà un processo. Un’odissea per la famiglia». Nell’ultima udienza era presente anche il fratello di Massimiliano. Il giovane perse la vita dopo 12 giorni dal Tso. Ai parenti fu consegnato uno zaino con maglie intime sporche di urina e, dopo altre situazioni dubbie presentarono denuncia. Dalla relazione del medico legale Maiese emerse che era stato sottoposto a contenzione fisica, ma non continua e mai con il blocco di tutti gli arti. Morì per arresto cardiaco provocato dai medicinali somministrati durante il ricovero. Il dottore Maiese, nella prossima udienza, dovrà rispondere al quesito della Procura: «È responsabilità dei medici indagati un elettrocardiogramma, più puntuale nel corso del tempo, considerata la somministrazione al 39enne di determinati farmaci? «È un ritardo inaccettabile per la famiglia che chiede chiarezza», conclude Capano.
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