«Nell'agguato vidi anche il boss
non lo dissi subito per paura»

«Nell'agguato vidi anche il boss non lo dissi subito per paura»
di Nicola Sorrentino
Martedì 12 Settembre 2017, 12:19
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«Quando spararono verso casa mia, riconobbi nella seconda persona Antonio Petrosino D'Auria». La testimonianza è stata resa da Francesco Oliva, autotrasportatore con precedenti nel settore ortofrutta, sentito ieri dai giudici di Nocera Inferiore nel processo "Criniera", a sua volta scaturito da un'indagine su una presunta collusione tra il clan Fezza - D'Auria Petrosino a Pagani e l'amministrazione dell'ex sindaco Alberico Gambino (che per le stesse accuse, in altro processo, è stato assolto nei primi due gradi di giudizio).

Oliva ha spiegato che quella sera dal balcone riconobbe il presunto "boss" dai tratti fisici - "capelli e corporatura", ma di non averlo detto all'epoca, quando fu sentito dalla Dda, per "paura". «Di lui si dicevano cose molto pesanti», ha spiegato al collegio. «Spararono 5 volte. Mi affacciai dal balcone e riconobbi Antonio Petrosino. Tempo prima, mi chiamò Gennaro Caldieri. Voleva vedermi. All'incontro mi dissero che avrei dovuto cedere l'attività».

Il tribunale ha poi sentito Giovanni Napolano, vittima di un tentativo di estorsione aggravata dal metodo mafioso da parte di Renato e Aldo Cascone, all'epoca esponenti della maggioranza dell'ex sindaco Gambino. Al centro della discussione un ufficio di patronato, inquadrato come il risultato di una «promessa elettorale in cambio di voti al gruppo politico di Cascone e Gambino». Napolano, insieme al fratello, era titolare del centro di assistenza fiscale all'interno di "Pagani per tutti". Il testimone ha raccontato di aver subito una spedizione punitiva sempre legata alla gestione dell'attività con utili da dividere. Al suo rifiuto seguì il pestaggio: «Cascone mi disse che se non si faceva così mi affossava. Vennero lì e presi spintoni e schiaffi. Mi portarono fuori e mi spinsero in un portone. Quel posto mi era stato affidato per contrastare un’altra persona sgradita al loro gruppo politico. Restai senza parole quando arrivò la minaccia. Poi ci fu una telefonata per chiarire, ma il messaggio restò lo stesso. O si faceva in quel modo o mi affossavano. Allora mi rivolsi ad un mio parente, Gennaro Napolano, uno della "Lamia", per capire come fare. E lui mi disse che i Cascone facevano sempre così, lo avevano già fatto con altri. La stessa cosa me la dissero anche dei colleghi. La soluzione, disse mio fratello, che era uno rispettato, era mettersi in società con lui». 
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