«Io, prima abbandonato in corsia
poi rinato dall'incubo: guarito e a casa»

«Io, prima abbandonato in corsia poi rinato dall'incubo: guarito e a casa»
di ​Daniela Faiella
Venerdì 3 Aprile 2020, 06:25 - Ultimo agg. 08:01
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La prima cosa che ha fatto appena tornato a casa è stato tagliarsi i capelli. Non riusciva proprio a guardarsi allo specchio con quella chioma fuori posto. Ha aspettato, quindi, che spuntasse il nuovo giorno per armarsi di pettine e forbici e darsi una sistemata. Per Massimo, 39 anni, di Sant’Egidio del Monte Albino, professionista del settore alberghiero, dimesso dall’ospedale di Scafati mercoledì sera dopo una lunga battaglia contro il Coronavirus, è stata l’alba di una nuova vita. La voce, al telefono, è ancora provata dalla debolezza, ma lui vuole raccontare la sua storia, anche per lanciare un segnale di speranza in un momento in cui i dati alimentano pessimismo. «Si può uscire da quel tunnel - dice - anche se non è facile. Nessuno può ritenersi immune e, quando il virus ti ha attaccato, è già tardi. Ho vissuto momenti terribili, ma alla fine ce l’ho fatta».

Massimo inizia dal principio, dalla comparsa dei primi sintomi. Era di lunedì, esattamente il 9 marzo - racconta - Tornai a casa ad ora di pranzo dopo una mattinata di lavoro. Mi sentivo spossato e con le ossa rotte. Avevo la febbre a 39. Pensavo ad un raffreddamento. L’idea del Coronavirus neppure mi sfiorava». Il 39enne di Sant’Egidio non sa come si sia contagiato. «Per lavoro ho contatti con tantissime persone e nei giorni precedenti avevo fornito consulenza ad alcune coppie provenienti dal nord Italia. Forse è stato quello il momento». La tosse, il mal di gola e la febbre che non calano.

«Sono stato a casa per circa dieci giorni senza che nessuno venisse a visitarmi per capire cosa avessi. Neppure rispondeva al telefono il mio medico curante e, quando ho contattato l’Asl per chiedere di effettuare un tampone, mi è stato riferito che dovevo rapportarmi a lui per l’attivazione del protocollo previsto. Per disperazione, dopo nove giorni, sono andato in ospedale. Era l’unico modo per sapere se avevo il Coronavirus». È il 18 marzo quando il professionista, accompagnato in auto dalla moglie, raggiunge l’Umberto I. Nella tenda pre-triage, la prima visita. Poi la tac, il tampone e la conferma della positività al Covid 19. Inevitabile il ricovero, in malattie infettive.
 

«Quattro giorni che spero di dimenticare - dice - In quel reparto, dove era tutto disorganizzato, dove medici ed infermieri ci lasciavano per ore nelle stanze senza sapere come darci assistenza, ci sono stati momenti in cui davvero ho pensato di non farcela. La febbre non scendeva e, nonostante avessi la maschera dell’ossigeno, non riuscivo a respirare. Mi sentivo abbandonato al mio destino».

Il giorno 22 Massimo viene trasferito a Scafati, al polo Covid. È uno dei primi pazienti ad essere accolti nelle nuove stanze della sub-intensiva, al terzo piano. «È stata quella la mia salvezza. Il giorno successivo ho capito che avrei potuto farcela. Stavo ancora male ma sentivo di essere in buone mani, in un presidio di eccellenza, perfettamente organizzato, dove ho avuto modo sin da subito di apprezzare la professionalità, la competenza e la grande umanità del personale sanitario, a partire dal primario che era presente sempre».

A Scafati il 39enne resta nove giorni. La terapia farmacologica funziona. Migliora giorno dopo giorno, fino a quando la febbre scompare. Martedì sera arriva il responso del secondo tampone, che risulta negativo come il primo. Massimo ritorna a casa. Felicissimo, ma triste allo stesso tempo. Sua moglie e suo figlio di 8 anni sono in quarantena, nello stesso appartamento, perché positivi anche se asintomatici. «Non dimenticherò mai di aver varcato la soglia di casa e di aver chiesto a mio figlio di non saltarmi addosso per abbracciarmi. Lui era lì, con mia moglie e l’altra mia figlia. Avrebbero voluto stringermi forte ma non hanno potuto farlo». Per lui ci saranno ancora quindici giorni di isolamento. «Non importa. Ormai sono rinato». 
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