Amusia, la filosofa Ilaria Gaspari: «Vi racconto com'è vivere senza musica»

Amusia, la filosofa Ilaria Gaspari: «Vi racconto com'è vivere senza musica»
di Ilaria Gaspari
Sabato 11 Luglio 2020, 13:25
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Come si può vivere senza musica? Per fortuna, nonostante il dibattito di questi giorni sul destino di concerti e festival, che coinvolge anche la sorte – non solo professionale – di un numero impressionante di persone, è una domanda tutta teorica; per qualcuno, però, cioè per noi amusici (circa il 4% della popolazione mondiale) la vita senza musica è una realtà. Ma non compatitemi, o meglio, compatitemi senza esagerare: non so cosa mi perdo, e questa è a modo suo una piccola disgrazia, però ho imparato a compensare. Resta il fatto che, se potessi esprimere un desiderio, mi piacerebbe capire la musica, anche per un solo giorno.

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L’amusia è l’incapacità di eseguire, comprendere e apprezzare la musica. Chi ne soffre ha difficoltà a distinguere una melodia, o a comprendere l’altezza delle note. Io, per esempio, ho bisogno di concentrarmi molto per far emergere la musica dal rumore di fondo. Non canto, non suono, non ballo. Ci sono canzoni che per qualche ragione mi colpiscono, ma non potrei mai canticchiarle: per questo ricordo le parole come se fossero poesie. A volte penso che ci sia un legame fra la mia amusia e il fatto di essere diventata una scrittrice.

Per molti anni, naturalmente, ho ignorato di essere amusica: ignoravo che ci fosse un nome da dare al senso di inadeguatezza che mi prendeva quando c’era di mezzo la musica. Perché la storia della mia amusia in fondo racconta, soprattutto, quanto sia importante la musica nell’esperienza di vita di tutti – anche di chi non riesce a sentirla come gli altri. All’asilo ci facevano battere le mani a ritmo, e non c’era verso che riuscissi a tenere il tempo. Le maestre sospettavano che lo facessi apposta: non lo facevo apposta. Si chiesero allora se non fossi per caso sorda: non lo ero. Solo che, per me, il ritmo era qualcosa di inafferrabile. Così battevo le mani fuori tempo, ed era solo l’inizio. In seconda elementare cominciò il dramma del flauto dolce: per me era motivo di orgoglio eseguire ogni brano che studiavamo, da Viva la bamba! (grande passione del maestro) all’Inno alla gioia, alla massima velocità. Al saggio mi dissero di suonare molto piano, e io lo feci; mi viene ora il dubbio che quell’indicazione sibillina – piano! – mirasse ad abbassare non solo la rapidità ma anche il volume dell’esecuzione.

All’età di nove anni l’amusia interferì con la mia prima crisi mistica: cresciuta da genitori laici, avevo preteso di frequentare il catechismo, e mi ero messa in testa di dover salvare l’anima dei miei convincendoli a venire alla messa domenicale. Quale escamotage migliore, che entrare nel coro della chiesa? Però non riuscivo mai a capire quando inserire la mia vocetta fra quelle degli altri bambini. I miei genitori vennero effettivamente a messa, ma non mi sentirono cantare; e quando chiesero delucidazioni al maestro del coro, lo sentii rispondere che no, Ilaria non cantava mai. Avrei potuto perfezionare il mio playback, invece finii per accantonare, insieme, misticismo e musica.

Ma fu con l’adolescenza che divenne un problema. In quell’età d’inquietudine e di ricerca spasmodica di un’identità, la musica e i gusti musicali hanno il potere di aggregare, di definire, di segnare confini e conquiste. Per tutti, tranne che per gli amusici. Da qualche parte conservo un mucchio di cd masterizzati per me dai fidanzatini del tempo: innamoramenti intensi e superficiali, abbastanza da credere alle mie risposte alla fatidica domanda, che arrivava sempre: “Che musica ti piace?”. Io, patetica, bugiarda, dicevo: “Un po’ di tutto”.

Ma il vero incubo era – è – il ballo.
Quel desiderio forsennato di buttarsi in pista a ritmo, che a quanto pare assale tutti tranne gli amusici. A salvarmi dallo smarrimento è stata la diagnosi, arrivata grazie a un’amica neurobiologa che, al tempo dell’università, lesse un articolo sull’amusia e mi diagnosticò il disturbo con un piccolo test. Finalmente, a chi mi invita a ballare posso citare un aneddoto di Oliver Sacks, secondo il quale Che Guevara, amusico (come Sigmund Freud: pure fra le nostre fila si annoverano nomi celebri) ballò una volta un tango appassionato mentre tutti ballavano la samba; e posso soprattutto farci una risata, che resta sempre il modo migliore per sconfiggere l’imbarazzo di sentirci fuori posto.
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