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Covid, Vaia: «Non c’è vera emergenza: il virus ormai è cambiato, gli va dato un altro nome»

«La pandemia, per come l’abbiamo conosciuta noi, non c’è più», dice Francesco Vaia, direttore generale dell’Istituto Spallanzani di Roma

Covid, Vaia: «Non c è vera emergenza: il virus ormai è cambiato, gli va dato un altro nome»
Covid, Vaia: «Non c’è vera emergenza: il virus ormai è cambiato, gli va dato un altro nome»​
di Graziella Melina
Articolo riservato agli abbonati
Sabato 7 Gennaio 2023, 10:45 - Ultimo agg. : 10:46
4 Minuti di Lettura

«La pandemia, per come l’abbiamo conosciuta noi, non c’è più». Francesco Vaia, direttore generale dell’Istituto Spallanzani di Roma, non è affatto preoccupato per l’attuale numero dei contagi di Covid. Ma continua a guardare con attenzione alla diffusione del virus in Cina. «Può succedere che se abbiamo un miliardo e più di persone contagiate, si può determinare una variante nuova che potrebbe scatenare in altre parti del mondo un nuovo focolaio». 

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Partiamo dall’Italia. In base ai dati del bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità, alcune regioni tra le quali il Lazio, sono definite ad alto rischio. Quindi ci dobbiamo preoccupare?

«Dipende da come leggiamo questi dati: nella settimana presa in esame dall’Iss si osserva un’incidenza lievemente superiore su centomila persone. Ma visto che ci troviamo in un periodo di feste e non abbiamo usato le mascherine, mi sembra un’incidenza accettabilissima. Quando si leggono i dati bisogna valutare altri parametri più attendibili, che sono quelli dell’ospedalizzazione e della malattia grave». 

Gli ospedali rischiano una maggiore pressione?

«Per il momento la situazione è sotto controllo. Le terapie intensive sono stabili, non sono aumentate nonostante ci sia stato un lieve incremento del contagio, mentre i ricoveri ordinari sono diminuiti. I dati del Lazio sono abbastanza confortanti. Noi siamo l’ospedale di riferimento della Regine, il nostro centro è rimasto sempre attivo, e abbiamo numeri molto al di sotto di quello degli anni scorsi. Siamo ancora in condizioni di accettabilità. Non dimentichiamo che l’incidenza è aumentata negli ultra 90enni, perché l’identikit è un paziente anziano non vaccinato, che ha altre patologia e quindi prendendo il Covid viene in un ospedale specializzato per poter curare anche il Covid». 

Ci sono farmaci sufficienti per curare sia il Covid che l’influenza?

«La situazione è abbastanza tranquilla. Per il Covid abbiamo dosi anche eccessive di paxlovid, anzi c’è una scarsa richiesta, spesso non viene usato. Per l’influenza, se parliamo di antipiretici, c’è invece una sorta di sindrome dall’accaparramento, che è determinata anche dagli allarmismi. Vedo più che altro un eccesso di richieste di antibiotici, e per questo dobbiamo indirizzare all’uso corretto di questi farmaci, che vanno presi solamente quando c’è una infezione batterica, e mai per un’infezione virale, ed esclusivamente se prescritti dal medico. Ricordiamo che per l’antibiotico resistenza ogni anno in Europa si contano 33mila morti; in Italia si arriva a 11mila morti. Quindi, non facciamo accaparramento e prendiamoli solo quando ce li consiglia il medico». 

Secondo Thomas Mertens del Robert Koch Institut la pandemia è finita. Lei cosa ne pensa?

«Mertens, che ho voluto nel mio board scientifico, afferma una cosa giustissima: la pandemia per come l’abbiamo conosciuta noi non c’è più. In un documento sottoscritto anche da lui insieme a tanti altri esperti quasi un mese fa, come Spallanzani, abbiamo suggerito di chiamare questa malattia non più Covid 19 ma Covid 23». 

Cosa è cambiato?

«Il Covid 23 determina una malattia che si ferma spesso alle prime vie aeree superiori, quindi non troviamo una polmonite come nel 2019-2020; questo accade molto raramente, e l’85 per cento delle persone che possono prendere la polmonite sono anziane e hanno altre patologie». 

Però in Cina il Covid sta causando morti, non è una malattia lieve.

«Questo dipende dal fatto che abbiamo una grande immunità ibrida. La somma dei fattori che si sono determinati in Italia, cioè un alto tasso di vaccinazione e un contagio ampio, quindi l’immunità naturale e quella indotta da vaccino, ci protegge. Per cui noi oggi non siamo spaventati dalle varianti presenti in Italia, noi siamo protetti con i vaccini che abbiamo fatto, e che dobbiamo continuiamo a fare. Il guaio è stato determinato perché queste varianti, che da noi sono già note, si sono diffuse in Cina dove il tasso della vaccinazione è basso, e i vaccini utilizzati non sono stati performanti come i nostri. Pertanto, noi abbiamo un altro tipo di epidemia che determina un altro tipo di patologia molto più lieve». 

Ma la situazione cinese ci riguarda comunque?

«Certo, può succedere che se abbiamo un miliardo e più di persone che hanno una diffusione dell’epidemia così alta, si può determinare una variante nuova che potrebbe scatenare in altre parti del mondo un nuovo focolaio. I cinesi purtroppo collaborano ancora troppo poco, c’è poca trasparenza sui dati. Per cui noi ci candidiamo ad andare in Cina per vedere cosa sta succedendo. In un mondo ormai globalizzato, occuparsi di altri Paesi non è solo una questione etica, ma è un fatto di sanità pubblica». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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