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Stress da Covid, è fuga dai Pronto soccorso: mancano 4 medici su 10

Stress da Covid, è fuga dai Pronto soccorso: mancano 4 medici su 10
Stress da Covid, è fuga dai Pronto soccorso: mancano 4 medici su 10
di Giampiero Valenza
Articolo riservato agli abbonati
Martedì 21 Settembre 2021, 22:23 - Ultimo agg. : 22 Settembre, 11:14
4 Minuti di Lettura

Nell’Italia dalla pianta organica perfetta ci sarebbero in servizio 8.300 medici di pronto soccorso. Prima della pandemia ne mancavano all’appello 2.300, quindi circa il 27%. Il Covid ha messo lo zampino anche qui e tra pensionamenti e professionisti che hanno deciso di andare via, c’è un 10% in più di posti vuoti. Quest’anno, poi, l’ulteriore sorpresa: 456 borse di studio per la specializzazione in medicina di urgenza non sono state assegnate, mettendo in ulteriore crisi l’intero settore. L’allarme è lanciato dalla Simeu, la Società italiana medicina di emergenza-urgenza, che fotografa uno scenario fatto di giovani medici che ai ritmi del pronto soccorso preferiscono quelli della libera professione o dei reparti d’ospedale.

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Stress da Covid, è fuga dai Pronto soccorso

«I giovani sono meno incentivati a scegliere la specialità dell’emergenza-urgenza perché è un lavoro gravoso, poco riconosciuto e non premiante – spiega Salvatore Manca, presidente di Simeu - Ci sono turni massacranti e il peso del decidere per la vita di un paziente, le ripercussioni legali e l’impossibilità di svolgere la libera professione che invece fanno gli altri specialisti. A questo si aggiungono i casi di aggressioni verbali e fisiche di cui diventano facili vittime».

La situazione si fa ancor più dura quando i reparti sono pieni e nei pronto soccorso c’è necessità di tenere i pazienti in osservazione per giorni. «In Italia – aggiunge Manca - c’è una media di posti letto di 3,7 ogni 1000 abitanti, inferiore alla media dell’Unione europea di 5,2. Ed è un dato lontano dai 6,8 della Germania». A occuparsi della presa in carico del paziente, appena arrivato al pronto soccorso, ci sono gli infermieri di triage, esperti nelle procedure di accoglienza e valutazione dello stato di salute della persona. Stabiliscono il grado di priorità di accesso ai trattamenti.

LA SITUAZIONE

È la porta d’ingresso al sistema delle cure d’emergenza. «Il fenomeno delle aggressioni c’è sempre stato, ma in questo periodo è particolarmente sentito – dice Daniele Marchisio, presidente della Società scientifica Gft, Gruppo formazione triage – Le cause possono essere tante, principalmente due: il particolare momento storico della pandemia e la gestione dei tempi d’attesa che sempre più spesso diventano lunghi. Sono giudicati inaccettabili dall’utenza e talvolta anche dagli stessi operatori. Le soluzioni ci sono, a cominciare dai percorsi differenziati per i casi meno complessi, nell’attesa che si lavori per offrire risposte adeguate in strutture territoriali esterne al pronto soccorso». Secondo uno studio condotto dalla stessa Gft e dall’Università di Bari, nei pronto soccorso italiani «l’86% del personale sanitario ha subito un’aggressione fisica, il 29,73% nell’arco del turno tra la mattina e il pomeriggio e il 28,83% ha deciso di non segnalare l’accaduto», commenta Roberto Lupo, docente di infermieristica nell’ateneo pugliese e tra i ricercatori che ha condotto l’analisi.

LE VIOLENZE

«Quasi tutti i lavoratori che non hanno denunciato il caso di violenza hanno fatto questa scelta perché ritengono che non avrebbe cambiato nulla o che come conseguenza ci sarebbe stata la perdita del posto di lavoro», aggiunge. La vita al pronto soccorso, dunque, è continuamente sotto pressione. «Durante il periodo acuto della pandemia siamo stati tutti etichettati come eroi. Ora non è più così – prosegue Lupo - Uno degli ultimi episodi è avvenuto qualche giorno fa, con due infermiere che sono state prese a schiaffi e pugni all’ospedale di Copertino, a Lecce. Gli ultimi trend evidenziano in questa fase un aumento di almeno il 30% delle aggressioni al pronto soccorso». L’allarme del Simeu «è grave e reale», commenta Tonino Aceti, presidente di Salutequità. «Tra il 2009 e il 2019 il personale sanitario non ha avuto una politica retributiva all’altezza delle competenze e del ruolo che svolgono», commenta.

ASSUNZIONI E RETRIBUZIONI

«L’onda d’urto della pandemia li ha stressati sotto un punto di vista psicologico e fisico. È importante che nella prossima legge di bilancio si investa nel personale sanitario e nelle aree dell’emergenza-urgenza. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede la costruzione di tantissimi ospedali e case di comunità – aggiunge Aceti – Questi servizi devono essere erogati da personale, il cui numero adesso è insufficiente. Per evitare di costruire cattedrali nel deserto bisogna dare segnali concreti, fare assunzioni, dare risposte sotto il punto di vista retributivo e puntare sulla formazione». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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