Covid, la cura dalle cellule staminali del cordone ombelicale. La sperimentazione anche in Italia

Covid, la cura dalle cellule staminali del cordone ombelicale. La sperimentazione anche in Italia
di Carla Massi
Giovedì 11 Febbraio 2021, 06:00 - Ultimo agg. 12 Maggio, 15:47
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I pazienti sono migliorati dopo sei giorni dall’infusione. L’infiammazione si era ridotta e le condizioni generali mostravano risultati incoraggianti nell’organismo di chi era ricoverato in terapia intensiva per Covid. Poco meno di una settimana prima questi pazienti avevano ricevuto la somministrazione di cellule staminali mesenchimali da cordone ombelicale. Dopo un mese dal trattamento i ricercatori hanno confrontato i gruppi del campione preso in esame, 24 persone, e hanno rilevato che non c’erano stati eventi avversi e che si poteva parlare di una terapia sicura. Queste cellule sono degli autentici vigili del fuoco, spengono l’infiammazione nei pazienti con polmonite da Covid-19. Fermano la causa di una sequenza di eventi che porta al collasso del sistema respiratorio, al rischio delle complicazioni e alla morte. Camillo Ricordi, 63 anni volato dall’Italia a lavorare negli Usa da un trentennio, è direttore del Diabetes Research Institute e del Cell Transplant Center all’Università di Miami. È fra i massimi esperti nel trapianto di “insulae pancreatiche”, ha lavorato con ricercatori di tutto il mondo nella messa a punto di strategie innovative per arrivare al trapianto di queste senza ricorrere ai farmaci immunosoppressivi. Proprio lui, nei mesi scorsi, nei suoi laboratori ha preparato le cellule da portare nelle terapie intensive. Ora è pronto per la seconda fase della sperimentazione. Collaboreranno anche sette centri italiani: l’ospedale di Modena, il Meyer e il Careggi di Firenze, il Policlinico Ca’ Granda di Milano con l’ospedale Covid di Milano Fiera, il San Gerardo di Monza con la Fondazione Centro di ricerca Tettamanti e l’università Milano-Bicocca, l’azienda ospedaliera universitaria di Verona e l’ospedale di Vicenza. Dovrebbe aggiungersi anche il San Matteo di Pavia.

Professore, la prima fase della ricerca ha dato risultati incoraggianti, vero?

«Abbiamo lavorato su 24 pazienti ricoverati nelle terapie intensive con una forma di Covid molto grave. Li abbiamo divisi in due gruppi. Ad uno sono state somministrate infusioni per via endovenosa di cellule staminali mesenchimali da cordone ombelicale, in genere gettate via dopo la nascita, e all’altro placebo. Né loro né noi medici sapevamo a chi era stato infuso il vero farmaco. Sì, parliamo di risultati incoraggianti, già pubblicati sulla rivista “Stem Cells Translational Medicine”. La sperimentazione clinica ha già ottenuto l’approvazione della Food and Drugs Administration».

Ci spieghi il ruolo che hanno avuto queste cellule sull’infezione da coronavirus.

«Noi da tempo conosciamo gli effetti di queste cellule perché le abbiamo utilizzate per mettere a punto una possibile cura contro il diabete di tipo 1. Sono degli antinfiammatori e immuno-regolatori. Contrastano la tempesta di citochine, hanno anche un’azione antivirale e antibatterica e promuovono la rigenerazione dei tessuti. Con una endovenosa le staminali mesenchimali riescono ad arrivare direttamente nei polmoni».

Vi siete concentrati sul diabete 1 e siete riusciti a individuare i benefici per questi pazienti?

«La Cina è nostro partner per i trapianti delle isole pancreatiche ma siamo certi che il trattamento possa essere applicato anche alle malattie degenerative come il Parkinson e l’Alzheimer».

Scusi se insisto ma, dal diabete e le malattie degenerative come siete arrivati al Covid-19?

«Quando queste cellule vengono iniettate sono intrappolate dal filtro del nostro organismo, i polmoni.

Mentre per il diabete 1 occorre mandare queste cellule nel pancreas e quindi cateterizzare l’arteria femorale e risalire all’arteria dell’organo bersaglio, con il Covid è tutto più semplice perché una somministrazione in una vena periferica le porta direttamente ai polmoni. Ricordiamo che in caso di Covid i polmoni sono colpiti. Così, le cellule riescono ad operare immediatamente e riparare i danni del virus».

La prima fase della sperimentazione doveva accertare anche la sicurezza sull’organismo. L’esito è stato positivo?

«Dopo un mese dalle infusioni, due a distanza di 72 ore una dall’altra, ci siamo resi conto che potevamo andare avanti seguendo quell’intuizione».

Può tradurci in numeri questo primo successo?

«La sopravvivenza è stata del 91% rispetto al 42% del gruppo che non ha ricevuto la terapia. Tra gli under 85 la percentuale è salita al 100 per cento. In due settimane i pazienti sono tornati a casa e stanno bene. L’altro gruppo, quello a cui era stato somministrato il placebo, è rimasto in ospedale ancora quasi un mese».

A quando il secondo passaggio?

«A tempi brevi, l’arruolamento, secondo un protocollo internazionale, prevede questa volta un ampio numero di pazienti di Nord America, Brasile, Italia, Argentina, Colombia e Cile».

Anche in Italia?

«Lo studio internazionale si chiama Rescat, in Italia è guidato dai laboratori del Policlinico di Modena con l’Università Modena-Reggio Emilia. Coinvolge sette centri del nostro Paese. Responsabile della sperimentazione Made in Italy è Massimo Dominici, il direttore della Struttura complessa di malattie dell’apparato respiratorio dell’Azienda di Modena».

Quanto ci vorrà per riuscire a conoscere gli esiti di questa sperimentazione e poi avviarsi verso la terza?

«Sono stati previsti circa sei mesi dall’inizio del trial per capire se questo tipo di cura avrà ottenuto buoni risultati oppure no».

Stiamo parlando di un trattamento costoso che difficilmente riuscirà ad entrare nella routine terapeutica?

«È esattamente il contrario. Ricordiamo che la materia prima è il cordone ombelicale che può essere fornito da tutti gli ospedali del mondo. Da uno solo riusciamo ad avere diecimila dosi. Sotto il profilo dei costi direi che parliamo di poche centinaia di euro».

L’idea è quella di creare una sorta di banca di queste cellule?

«Siamo stati sostenuti da molti finanziatori privati anche italiani. L’obiettivo potrebbe anche essere quello di creare una banca di staminali mesenchimali già pronte, dosate e crioconservate».

Questa è una terapia che dovrà essere utilizzata solo su pazienti molto gravi?

«Noi, vista l’urgenza della situazione, abbiamo somministrato la cura a pazienti che erano in condizioni molto gravi. Credo che, se la terapia verrà diffusa e diventerà dominio di tutti, potrà essere indicata anche per i positivi che hanno manifestato i primi sintomi».

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