Studiavamo le nuove terapie interventistiche mini-invasive, esaminavamo gli smartwatch di ultima generazione capaci di aiutare il paziente a riconoscere da solo l’attacco di cuore e chiedere subito aiuto, analizzavamo algoritmi sulle patologie, implementavamo la telemedicina.
Tutto guardando al futuro. Improvvisamente, dal 2020 ad oggi, un drammatico ritorno al passato. Come se i più recenti successi della Ricerca e della Medicina fossero stati azzerati. La pandemia sembra aver fatto tornare indietro la cardiologia di decenni. Direi quasi vent’anni per mortalità da infarto e ictus. L’emergenza ha costretto a convertire molti posti letto cardiologici per trattare i positivi, in molti ospedali l’assistenza cardiologica è stata ridotta all’osso, molti pazienti non si sono sottoposti alle viste di controllo o, per paura dell’infezione, sono arrivati troppo tardi in ospedale dopo l’attacco.
LA CONTRAZIONE
La rivelazione l’abbiamo avuta da un’indagine che abbiamo condotto come Società italiana di cardiologia in 45 ospedali equamente distribuiti sul territorio nazionale. I dati parlano da soli. Il 68% degli ospedali ha ridotto i ricoveri elettivi dei pazienti cardiopatici, il 50% ha diminuito l’offerta degli esami diagnostici e il 45% ha dovuto tagliare le visite ambulatoriali. Il 22% ha dovuto ridurre i posti letto nella terapia intensiva cardiologica, mentre il 18% degli istituti ha ridotto il personale medico e il 13% quello infermieristico. È necessaria un’inversione di rotta che garantisca un ripristino e magari un potenziamento dell’assistenza cardiologica, anche perché in futuro i pazienti cardiologici potrebbero aumentare proprio per colpa del Covid.
Tutto questo è allarmante: i pazienti cardiopatici non hanno trovato più un’assistenza adeguata alla prevenzione e al trattamento delle loro patologie. Uno studio pubblicato su Nature Medicine dimostra che dopo la guarigione dall’infezione i pazienti hanno un maggior rischio di malattie cardiovascolari. Come scompenso cardiaco, ictus, infarto, aritmie e mio-pericarditi. La situazione è di evidente emergenza. I dati emersi richiamano alla necessità di proteggere i pazienti cardiopatici, se non vogliamo perdere il vantaggio straordinario ottenuto in cardiologia in queste ultime tre decadi: l’angioplastica per l’infarto ha ridotto la mortalità dal 30% a circa il 4%, ma se i ricoveri e gli interventi continueranno a ridursi un sempre minor numero di vittime di attacco cardiaco vi potrà accedere. I nuovi dati indicano inoltre che i pazienti guariti dal Covid devono ricevere un’attenzione maggiore per l’aumentata probabilità di essere colpiti da patologie cardiovascolari: siamo perciò in un momento in cui a una minore prevenzione e terapia delle malattie cardiovascolari si associa un maggiore rischio proprio di queste malattie nei pazienti guariti dal Covid. In Italia le malattie cardiovascolari rappresentano il 44% di tutti i decessi, la cardiopatia ischemica è la principale causa di morte (28%) e 4,4 italiani ogni mille vanno incontro a disabilità cardiovascolare. Tutto ciò dovrà essere seriamente considerato nelle prossime strategie di riorganizzazione del sistema sanitario nazionale.