Osteopata e chiropratico, il paradosso dei nuovi professionisti senza un piano di studi definito

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di Antonio Mastrapasqua*
Giovedì 8 Luglio 2021, 06:00 - Ultimo agg. 19 Febbraio, 21:46
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C'è sempre una tentazione, quando si guarda al complesso sistema dei servizi, soprattutto quando si parla di educazione e di salute. Preoccuparsi di più di chi il servizio lo eroga, trascurando un po’ chi ne usufruisce. A scuola è legittimo preoccuparsi dei diritti degli insegnanti e del personale non docente, ma la prima questione riguarda gli studenti e le loro famiglie. Lo stesso dicasi nel sistema sanitario. Medici e infermieri devono essere tutelati e rispettati – ben prima degli atti di eroismo di cui sono stati protagonisti anche nei mesi recenti segnati dalla pandemia – ma il primo sguardo deve essere rivolto ai cittadini “pazienti”. Non solo per non renderli impazienti, ma per assicurare il loro primario diritto alla salute. La soddisfazione per il riconoscimento di professione sanitaria dell’osteopata e del chiropratico – avvenuta in questi giorni – non può far dimenticare la solita variabile tempo. Già, perché sono più di tre anni che si attendevano i decreti attuativi della Legge Lorenzin – così denominata per l’impulso dato alla norma dall’allora ministro della Salute – la n. 3/2018, che è all’origine di questa importante novità. Ma non siamo ancora arrivati all’ultima parola, poiché deve essere definito il percorso di studi coerente con la nuova professione sanitaria. Ad oggi manca ancora la definizione dell’ordinamento didattico, la valutazione dei titoli pregressi e l’istituzione di un Albo professionale. Speriamo di non dover attendere altri tre anni. Non solo per le legittime aspettative dei professionisti, ma soprattutto per dare certezze ai pazienti. C’è chi stima in due milioni il numero degli italiani che ricorrono alle cure di un osteopata o di un chiropratico. È legittimo attendersi che ci siano norme e controlli che possano rassicurare sulle competenze esibite da un piccolo esercito di nuovi “professionisti sanitari”. Anche per non confondere chi non ne sa ancora abbastanza. Vista la leggerezza con cui il legislatore confonde agricoltura biodinamica con agricoltura biologica, è doveroso fare chiarezza e garantire trasparenza e competenza, anche quando il Parlamento si dimostra confuso. Paola Sciomachen, presidente del Roi (Registro osteopati d’Italia) ha definito il traguardo «una grande vittoria per tutta la categoria.

I nostri professionisti hanno dimostrato fiducia e pazienza anche negli ultimi mesi, quando la pandemia ha reso ancora più grave la situazione di limbo normativo che abbiamo vissuto e che ora ci auguriamo di aver lasciato definitivamente alle spalle». Un legittimo auspicio per gli oltre 12mila osteopati che operano da 30 anni nel nostro Paese, e per i 4.000 medici e i 6000 fisioterapisti che praticano questo tipo di medicina. Fino ad oggi la professione di osteopata era già riconosciuta in numerosi Paesi (non solo in Europa) tra cui Gran Bretagna, Francia, Portogallo e Svizzera. Noi ci arriviamo una trentina d’anni più tardi. Meno male che ci stiamo arrivando. Dopo decenni di osteopati stranieri – o italiani che esibivano un titolo di studio straniero, visto che in Italia la professione non era riconosciuta – è venuto il momento di assicurare ai pazienti italiani dei professionisti connazionali. Nessuno sciovinismo, ben inteso. Ma un po’ più di trasparenza. L’escamotage straniero era spesso una scorciatoia per utilizzare la pratica senza riconoscere il professionista. Ora manca la definizione di un ciclo di studi universitari abilitanti alla professione. E un albo professionale. Diciamocelo, non ci manca un altro albo professionale. Ma non è il caso di aprire qui e ora una riflessione sull’esistenza degli albi e delle professioni. Fermiamoci alla soddisfazione di un riconoscimento – tardivo – di una professione sanitaria alla quale già molti pazienti si rivolgono con aspettative e con buoni risultati. Di certo non ci manca una nuova cassa di previdenza. Temo che ce ne siamo anche troppe: una ventina di Istituti per poco più di un milione e mezzo di professionisti. Non tutte in buona salute finanziaria. Anche in questo caso l’autonomia professionale valuterà con libertà. Speriamo che prevalga il buon senso dei grandi numeri: le migliori tutele vengono da una mutualità allargata.

*già presidente dell’Inps

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