L'insalata di «rinforzo» e la “papaccella” a rischio estinzione

I peperoni "papaccella" appena raccolti prima della trasformazione sott'aceto
I peperoni "papaccella" appena raccolti prima della trasformazione sott'aceto
di Antonella Laudisi
Giovedì 23 Dicembre 2021, 18:10
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Insalata di rinforzo. La più ricca delle più povere pietanze delle Feste. Perché sulle tavole dei napoletani non può mancare: «È devozione».

E tutti sanno che per una ottima insalata di rinforzo l’ingrediente principe è la papaccella. Un peperone unico e, attenzione, in via di estinzione, tant’è che è iscritto al “Repertorio regionale” ed è conservato nelle Banche del germoplasma vegetale Campano. Insomma, c’è il rischio che da qui a qualche anno l’insalata di rinforzo potrebbe perdere, appunto, il “rinforzo”. Per scongiurare l’oblio di un sapore che è parte della napoletanità a tavola, un gruppo di studiosi del dipartimento di Agraria della Federico II sta portando avanti un progetto straordinario di ricerca, insieme con alcuni produttori decisi a non perdere questo gioiello della terra campana. Anche per metterlo al riparo dalle falsificazioni. 

Si fa presto, dunque, a dire papaccella, perché non tutti i peperoni sott’aceto possono fregiarsi di questo “titolo”. Quelle vere hanno una forma “costoluta” e devono essere coltivate in un’area ben definita di quella che i romani chiamavano Campania felix: Brusciano, Mariglianella, Marigliano, Acerra, Nola, Castello di Cisterna, Pomigliano d’Arco, Sant’Anastasia, Casalnuovo; è presidio Slow Food dal 2007 ed è sostenuto dalla Regione Campania, assessorato all’Agricoltura. A produrre questo gustoso peperone sono solo in 5, il loro referente è Bruno Sodano; una agricoltura eroica, specie perché strappa all’ignominia della Terra dei fuochi la campagna fertile e rigogliosa dell’agro nolano-pomiglianese. Come appassionato è il lavoro di Patrizia Spigno, ricercatrice della facoltà di Agraria, esperta in agrobiodiversità da anni impegnata per la conservazione del patrimonio di varietà di ortaggi storici e tradizionali della Campania attraverso la realizzazione di progetti finanziati in ambito regionale, nazionale ed europeo.

A lei si deve la gran parte dell’opera di salvaguardia della papaccella napoletana. Ed è lei che svela il percorso di questo ingrediente immancabile sulle tavole delle Feste. «Secondo alcuni, il nome latino “Capsicum” deriva da “capsa”, che significa scatola, e deve il nome alla particolare forma del frutto (una bacca) che ricorda proprio una scatola con dentro i semi». La diffusione in Europa è legata, come altri ortaggi, alla scoperta dell’America; Cristoforo Colombo lo portò nel 1493 e arrivò anche in Campania dagli Spagnoli. «Il frutto - spiega Patrizia Spigno - venne chiamato peperone a causa della somiglianza nel gusto (sebbene non nell’aspetto), con il pepe, Piper in latino». Questa la storia generale e incontrovertibile della diffusione del peperone. Ma sull’appellativo di papaccella napoletana ci sono diverse ipotesi. «Una prima, la maggiormente accertata, farebbe risalire il nome papaccella dal latino, dalla parola “pipiricellam”. Esiste, però, anche un’altra storia che farebbe risalire il nome ai molti abitanti, del comune di Brusciano e dintorni, che avevano come cognome Papaccio. Le coltivazioni erano localizzate nei pressi di masserie destinate alla produzione dell’aceto necessario per la conservazione: l’aceto si ricavava solitamente dal cosiddetto vino piccirillo, un vino rosso ottenuto da viti coltivate ad alberata (cioè appoggiate ad alberi vivi disposti in filari), aspro e poco alcolico, da consumare subito dopo la vendemmia. Il “ciutunaro”, così in dialetto si chiamava la persona che produceva le conserve, si occupava di immergere in aceto i peperoni e gli altri prodotti dell’orto all’interno dei cosiddetti “rancelloni”, sorta di botti in legno che potevano contenere fino a 150 chili di papaccelle intere, mai a filetti», dice Spigno. E aggiunge: «Le bacche conservate sotto aceto di vino rosso rappresentano l’ingrediente principe dell’insalata di rinforzo, tipico piatto delle feste natalizie partenopee».

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E così, quello che sembra il piatto povero arrivato a noi dalla condizione di antica miseria di un popolo lazzaro e re, assume tutto il sapore della storia e della cultura della terra campana. Una terra fertile, capace di accogliere i semi arrivatai da tanto lontano e di farne un prodotto proprio e tradizionale. Che dire? Mangiare non è solo nutrirsi ma conoscere e lottare per non perdere il piacere di ritrovarsi a tavola, anche in un tempo tanto difficile, gustando la storia. 

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