Scuola, pochi laureati e matematica trascurata. Ora l'Italia torni a investire sullo studio

Scuola, pochi laureati e matematica trascurata. Ora l'Italia torni a investire sullo studio
Scuola, pochi laureati e matematica trascurata. Ora l'Italia torni a investire sullo studio
di Patrizio Bianchi*
Giovedì 20 Agosto 2020, 07:22 - Ultimo agg. 14:12
4 Minuti di Lettura

Il discorso di Mario Draghi al Meeting di Comunione e Liberazione ha aperto molti temi, su cui il governo e tutto il parlamento debbono a lungo meditare, per evitare che anche queste parole ben ponderate e gravi vengano archiviate con i quotidiani che le riportano. Innanzitutto la centralità data da Draghi all'educazione va ben soppesata e bene fa l'ex presidente della BCE a connettere così strettamente spese in educazione al rilancio stesso dell'Unione europea. Del resto il 22 maggio 2018 il Consiglio europeo, che riunisce tutti i leader degli stati membri, assumeva l'educazione come pilastro europeo dei diritti sociali, affermando che il diritto ad una istruzione di qualità ed inclusiva è vitale non solo per la ripresa economica, ma soprattutto per poter partecipare alla trasformazione sociale che è oggi si sta realizzando in tutta Europa.

Covid, Draghi al Meeting di Rimini: «A rischio il futuro dei giovani, bisogna dar loro di più»
Il manifesto di Super Mario e la sferzata al governo. Gelo di Conte, ma c'è il tifo Pd

È a questa solenne dichiarazione che Draghi si riferiva, legando - in una prospettiva che vada oltre l'emergenza del Covid - i necessari investimenti in formazione alla prova di maturità che l'Europa richiede all'Italia in cambio di risorse, che se non bene investite, potrebbero trasformarsi in un pesante boomerang proprio per i nostri giovani, che dovranno sopportare in tal caso non solo il peso di un debito pubblico imponente, ma anche l'onere della perdita di ogni credibilità sul piano internazionale del proprio Paese.

Il rischio tuttavia è che il Coronavirus agisca ora da alibi per non affrontare i problemi che già da prima erano chiaramente evidenti a chi voleva leggere i numeri della nostra scuola. L'Italia si presentava infatti già prima del Coronavirus con numeri preoccupanti. L'Istat ci informa che gli italiani sono fra gli ultimi in Europa per livello d'istruzione, mentre in Europa in media il 33, 2 per cento della popolazione fra i 25 e i 64 anni ha una laurea o equivalente, in Italia ci fermiamo al 19,6 per cento; certamente pesa su di noi il nostro passato contadino, ma l'Unione si era data come obiettivo, ritenuto fondamentale per entrare nella società della conoscenza, del 40 per cento dei laureati fra i 30 e 34 anni e noi invece restiamo bloccati a 27, 6 per cento, attestandoci al penultimo posto in Europa, solo prima della Romania.

Il dato più grave è tuttavia la faglia che si sta aprendo fra Nord e Sud del Paese, mentre nel Centro-Nord questo dato si assesta al 31,4 per cento, nel Mezzogiorno si rimane frenati al 21,2 per cento, ed egualmente l'incidenza del ragazzi che non studiano e non lavorano nel Sud è più che doppia rispetto alle regioni settentrionali del Paese, quasi il 34 per cento nel Meridione contro poco più del 15 per cento al Nord. I numeri più drammatici però ce li offre l'Invalsi, cioè l'agenzia che rileva la qualità dell'istruzione in Italia, che ci avverte che un ragazzo su due nel Sud alla fine del diploma della scuola superiore non raggiunge il minimo richiesto in italiano e in matematica, contro un ragazzo su quattro nel Nord, attivando un circuito perverso di povertà educativa che si traduce in miseria materiale. A questo aggiungiamo che la Commissione europea nella sua ultima presentazione dell'Indice sulla Società ed Economia Digitale ci ha collocati all'ultimo posto in Europa, questa volta dietro anche alla Romania.
È con questi numeri che si spiega, secondo la logica espressa da Super Mario per usare la dizione cara ai media europei come l'Italia sia arrivata all'appuntamento fatale con il Covid con il più basso tasso di crescita in Europa uno smilzo 0,3 per cento a livello medio italiano dopo venti anni di bassa crescita.

D'altra parte ci vuole un po' di memoria per ricordare che - negli anni in cui tutti investivano in educazione per uscire rapidamente dalla prima crisi della globalizzazione - noi tagliavamo le spese per istruzione dal 9,2 per cento del PIL del 2009 fino al 7,8 per cento del 2016. Nello stesso periodo la Germania si assestava sopra l'11 per cento e tutti i paesi europei, anche i più periferici, si riposizionavano sopra il 10 per cento del PIL. Ci voleva il Coronavirus per riprendere ad investire sulla scuola, ma fa certo impressione che l'enfasi del dibattito sugli investimenti sia sulle rotelle dei banchi piuttosto che sulle competenze necessarie per rincorrere il cambiamento tecnologico che segna questa nostra epoca.
Questo è lo scenario che sta dietro le parole di Draghi, che da esortazioni di buon senso diventano allora l'unica via per uscire dalle sabbie mobili della bassa crescita, in cui siamo caduti da tempo ed in cui rischiamo di lasciare languire i nostri ragazzi a causa della nostra miopia colpevole.

* Cattedra UNESCO Educazione, crescita ed eguaglianza, Università di Ferrara

© RIPRODUZIONE RISERVATA