Scuola, Paolo Maria Reale: «Non sarà più la stessa, anche i prof devono evolversi»

Scuola, Paolo Maria Reale: «Non sarà più la stessa, anche i prof devono evolversi»
Scuola, Paolo Maria Reale: «Non sarà più la stessa, anche i prof devono evolversi»
di Mario Ajello
Giovedì 17 Settembre 2020, 07:35
4 Minuti di Lettura

La presidente Ue, Ursula Von der Leyen, ha lanciato la sua idea pratica: «Investire nell'istruzione è fondamentale per promuovere, nei nostri Paesi, una ripresa intelligente e inclusiva». Giusto, giustissimo. Qui in Italia, però, si sta vedendo in queste ore quanto sia difficile maneggiare il capitale scuola e quanto fatichino i presidi e gli insegnanti volonterosi nel riavvio delle lezioni. Ecco uno di loro, Paolo Maria Reale, 63 anni, rettore del Convitto Nazionale (Roma, Prati, una grande istituzione).


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Rettore, ha visto una consapevolezza nuova negli studenti e nei docenti ora che è ripartita, tra mille difficoltà, la scuola come pezzo della sperabile ripartenza dell'Italia?
«Mi è sembrato di vederla questa convinzione a fare di più e meglio. Ma non deve essere limitata al periodo iniziale e dovuta alle paure di questi giorni e dei mesi trascorsi. Tutti, nel mondo della scuola, dobbiamo assumere una coscienza più matura. Quella che ci deve far dire, e io lo dico con convinzione e senza retorica, che il futuro dell'Italia si costruisce nelle aule scolastiche».

Questo discorso non dovrebbe valere sempre e non solo in un momento così delicato.
«Deve valere sempre ma mai come stavolta occorre uno sforzo in più. Soltanto con il senso della comunità e con il senso dello Stato, che hanno nella scuola il loro lievito e il loro cemento, l'Italia si rialza. Noi dobbiamo pensare a che cosa sarà il nostro Paese tra 30 anni e preparare le energie, le competenze e mantenere i valori costituzionali su cui si poggerà».

Da dove ricominciare?
«Dall'ascensore sociale. Ho sempre pensato, nel periodo precedente all'avvento del web, che la scuola servisse proprio a far funzionare questo ascensore, consentendo ai ragazzi provenienti da famiglie meno agiate di altre di avere le stesse possibilità di crescita culturale».

Che cosa intende per epoca pre-web?
«Quella fino agli anni 80. Dopo, con le tecnologie digitali, sono cambiate tante cose. La cultura con la C maiuscola, lo studio matto e disperatissimo che legava Vittorio Alfieri alla sedia, sono andati decrescendo con la Rete e con la globalizzazione. E il web, che è essenziale come è ovvio, fa a pugni purtroppo con il Rocci, il celeberrimo vocabolario di greco che ha accompagnato tante generazioni, e con altri strumenti tradizionali scavalcati dalle nuove tecnologie. Queste spargono conoscenza. Ma quale tipo di conoscenza?».

Sta dicendo che un mix di studio tradizionale e di nuove tecnologie è la chiave per una nuova scuola in un nuovo Paese?
«Sono convinto che la scuola, senza minimamente rinunciare alla solidità delle conoscenze che vengono da lontano e non perdono mai la loro attualità, deve integrarle e rafforzarle facendo tesoro di ciò che è accaduto durante il lockdown. Ci siamo avventurati in quel periodo nella didattica digitale, che non va abbandonata. Il problema è che qualcuno nel corpo docente è ancora impreparato a questo salto necessario, in cui didattica tradizionale e multimediale diventano un tutt'uno. E si tratta di una situazione in cui non si può ragionare così: io insegno latino, o greco, o geometria, e basta. I docenti devono ampliare le proprie conoscenze e trasmetterle in maniera più larga e più intrecciata. Occorre uno sforzo di trasversalità».

Però molti di loro stentano a capirlo: se ci volete siamo così, sennò peggio per voi.
«E sbagliano. Le linee guida per la scuola sono riassunte nel Dpr 275 del 1999 che nell'articolo 1 riporta chiaramente la funzione istituzionale della scuola: Educare, istruire, formare. Anche i docenti devono formarsi di più e meglio. E ancora: tutte le scuole, dalle primarie al liceo, hanno oggi l'obbligo di occuparsi concretamente dell'educazione civica e di proporre in modo autonomo percorsi declinati in funzione del territorio e classi a cui sono rivolti. Mi piace immaginare approdo di questo discorso, una società a metà tra la Città-Stato greca e lo Stato etico di Hegel».

Paroloni?
«No, sto parlando di una società con maggiore partecipazione pubblica, nel rispetto delle idee di tutti e nell'ossequio all'autorità dello Stato che tutti ci rappresenta. Questa è la funzione della scuola. E da questo punto di vista la crisi, che i pensatori lungo la storia hanno sempre considerato foriera di grandi novità ci può aiutare».

Più dei soldi che potrebbero arrivare dal Recovery Plan?
«I soldi sono importanti, e stiamo vedendo proprio in questi giorni le criticità - si pensi alle classi-pollaio - che derivano dai tagli degli ultimi 30 anni. Ma è cruciale la parsimonia con cui i finanziamenti si usano e come vengono investiti. Andrebbe fatto di più proprio sulla formazione dei docenti. So che il nuovo fa paura, ma mettersi continuamente in gioco è una delle lezioni civili più preziose da dare agli studenti, cioè ai nuovi cittadini italiani».
 

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