Annalisa Aceti (Rizzoli Education): «Smart working non si trasformi in un elemento di ulteriore “gender gap”»

Annalisa Aceti, direttrice Rizzoli Education: «lo smart working non si trasformi in un elemento di ulteriore gender gap »
Annalisa Aceti, direttrice Rizzoli Education: «lo smart working non si trasformi in un elemento di ulteriore “gender gap”»
Giovedì 14 Gennaio 2021, 10:56
11 Minuti di Lettura

Annalisa Aceti è Direttore commerciale di Rizzoli Education (Gruppo Mondadori) e, grazie alla sua esperienza di gestione di reti commerciali, vede nell'emergenza sanitaria e nei mesi di lavoro da remoto che abbiamo alle spalle un pettine che ha fatto emergere molti nodi nel nostro modo di vivere e lavorare di insieme, ma nel contempo uno specchio che ha permesso di osservare le vie per uscire dalla crisi che stiamo vivendo. Molti i temi affrontati nella sua intervista: la crisi come opportunità, l'imprenditoria femminile, il gender gap, la cultura del successo a tutti i costi, le competenze necessarie nel lavoro del futuro.

All'interno delle aziende, ad esempio, Annalisa Aceti sottolinea il fatto che gli agenti - fino a ieri percepiti come figure in buona parte esterne all'organizzazione - oggi hanno molto da insegnare a dipendenti e collaboratori grazie alla loro abitudine a lavorare da soli, a distanza e con un forte orientamento al risultato.

Buongiorno Annalisa, c'è chi dice che, dopo un'epoca di cambiamenti, ciò che stiamo vivendo è un cambiamento d'epoca. Quali valori vede emergere nella "nuova normalità" che ci stiamo apprestando a vivere?

La pandemia che ci ha colpiti ha agito da catalizzatore di tendenze ed evoluzioni già in corso. Nell'ultimo decennio oltre che con una grande e lunga crisi economica ci siamo confrontati con una fase storica che ha segnato - citando un'efficace metafora di Karl Popper - il passaggio dal mondo degli orologi al mondo delle nuvole. Il mondo degli orologi era un mondo deterministico, razionale, ordinato, lineare e semplice; il mondo delle nuvole, invece, è un mondo irregolare, mutevole, caotico, imprevedibile e complesso. In altre parole, abbiamo vissuto “l’epoca del cambiamento”.

Eurozona nella morsa del Covid, le preoccupazioni dell'Ecofin

Con l’emergenza sanitaria stiamo attraversando mesi di incertezza ancora più spinta, di forte volatilità dei mercati, di nuovi scenari occupazionali e modalità di lavoro straordinarie. Tutto ciò ha coinciso anche con importanti shift sullo scenario globale: dalla rinnovata attenzione verso la sostenibilità manifestata anche nel Green New Deal della Commissione Europea, all’esito delle contese elezioni presidenziali negli Stati Uniti.

La naturale predisposizione dell’individuo e della società ad evolversi si confronterà prima di tutto con un nuovo concetto di “crescita” che dovrà essere sostenibile ed inclusiva, ed indirizzata alla soluzione di problemi concreti delle persone.

Saranno sentimenti come l'empatia, la fiducia e capacità come la comunicazione, il pensiero laterale, la collaborazione a permettere una maggiore vicinanza ai bisogni “concreti” delle persone. Tutte capacità e propensioni finora poco coltivate ma che sono gli asset della società e delle aziende del futuro. Caratteristiche queste riconosciute dalla letteratura manageriale al lavoro e alla leadership al femminile, non per ragione biologiche, anzi dal punto di vista scientifico è una caratteristica innata di tutti gli esseri umani, ma per ragioni culturali, a un certo punto della nostra evoluzione l'educazione all'accudimento, alla comprensione e al perdono sono diventate prerogativa femminile.

Come il Novecento è iniziato dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, anche il Duemila forse comincerà proprio al termine dell'emergenza sanitaria. Quali competenze saranno necessarie nel mondo del lavoro che ci attende?

Le crisi, come spesso sentiamo dire, possono essere anche grandi opportunità, perché ci invitano a mettere in discussione lo status quo. Questa crisi, che si è manifestata su uno scenario globale già complesso, ce lo restituirà cambiato da nuove identità e nuovi punti di riferimento.

A livello strutturale, emerge la necessità di meno autoritarismo, meno accentramento, meno controllo, e meno paradigmi di fisicità. Lo smart-working e la digitalizzazione ne sono un esempio e stanno favorendo la fluidità del lavoro, la delega, ed è scomparsa l’idea del ‘se non ti vedo, non so che lavori’, dando spazio alla flessibilità.

Le abilità tecniche diventeranno via via obsolete e le qualifiche verticali saranno man mano soppiantate dai progressi dell'intelligenza artificiale al contempo le stesse hard skills raggiungeranno gradi di sofisticazione mai visti prima e saranno appannaggio probabilmente di un elite professionale iper-specializzata.

Gli esperti sono concordi su un punto: le competenze che serviranno per affrontare il futuro del lavoro sono le soft skills altrimenti note come human skills, ovvero quelle attitudini propriamente umane ed in quanto tali difficili da replicare da parte delle macchine. Esempi sono la capacità di risolvere problemi, di avere a che fare con molti e diversi interlocutori, lavorare in gruppo, la creatività, l’abilità nella negoziazione, la comunicazione interpersonale, la gestione delle aspettative altrui, la fiducia nei collaboratori e l’orientamento alla condivisione.

Già da tempo le aziende stanno richiedendo competenze nuove di questo tipo, più adatte ad affrontare questa fase di transizione permanente, lo fanno non solo perché la tecnologia sta rendendo obsolete le skills tecniche, ma anche perché lo scenario (il mondo delle nuvole) entro cui le imprese si trovano a operare è contraddistinto da complessità crescente, imprevedibilità, velocità dell'innovazione.

La gestione del business e delle organizzazioni ha bisogno di competenze più emotive e relazionali che di controllo e di efficientamento (come accadeva nel mondo degli orologi).

Saper innovare, visualizzare e gestire le idee, aprirsi al nuovo, affrontare il cambiamento, sviluppare intelligenza emotiva: anche in questo caso di tratta di competenze femminili, competenze che saranno sempre più richieste in ambito professionale perché nessun robot sarà in grado di replicarle.

Creval, lettera azionisti a CdA: offerta di Credit Agricole non è adeguata

Angela Merkel, Christine Lagarde, Ursula von der Leyen e, da ultimo, Kamala Harris. Che cosa sta cambiando e cosa non sta ancora cambiando?

La mia generazione è cresciuta, negli anni ’80, con altrettanti esempi di leadership femminile come ad esempio Margaret Thatcher, Indira Gandhi, Maria Teresa di Calcutta. Per non parlare delle italiane Nilde Iotti (che detenne per quasi 13 anni e per ben tre legislature la carica di Presidente della Camera) a Tina Anselmi (Ministra del Lavoro e Ministra della Sanità). Se paragoniamo il ritmo con cui è cresciuta la leadership femminile negli ultimi 40 anni al ritmo dell'innovazione tecnologica e della trasformazione del nostro modo di vivere e lavorare, le velocità sono molto diverse e la prima è rimasta drammaticamente più lenta.

Quando si parla di gender gap si corre il rischio di pensare solo a disparità salariali o di possibilità di fare carriera. Si tratta di aspetti importanti, ma non dei soli di cui tener conto. Pensiamo all’Italia, i dati Istat già confermano che l’occupazione femminile è in calo più di quella maschile e anche quando sono le donne a fare impresa, quindi a dirigere la propria azienda, eventi come il Covid possono colpire in misura maggiore l'universo femminile, anche a causa del contesto, ancora iniquo, nel quale viviamo. I numeri diffusi da Unioncamere - Unione italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura - sono eloquenti: dopo anni di crescita costante, tra aprile e settembre 2020 le nuove imprese femminili iscritte al registro camerale sono calate del 42,5%.

E la ragione è probabilmente legata anche al fatto che "una parte cospicua" delle realtà a guida femminile "si concentra nei settori più colpiti dalla crisi (ristorazione, turismo, spettacolo). Ma questo risultato, nel periodo della pandemia, potrebbe essere dipeso anche dal maggior impegno profuso dalle donne in ambito familiare? Occorre sostenere l’imprenditoria femminile, anche perché risulta che le imprese guidate da donne siano più socialmente più responsabili e attente alla sostenibilità ambientale.

L’epoca del cambiamento, il “next normal” offre quindi una opportunità unica: recuperare il ritardo e presentarci al sempre più prossimo (next) appuntamento con il futuro con una società più inclusiva, che valorizzi la diversity in ogni sfera del quotidiano (famiglia, lavoro, scuola, società) e che mette al centro lo sviluppo di competenze così dette “femminili”.

Quali sono i freni sociali o culturali che impediscono un'evoluzione concreta nella direzione del pieno rispetto della diversity all'interno delle aziende e delle organizzazioni?

Il freno principale è legato al fatto che, nonostante le evoluzioni in atto, alla fine adottiamo ancora un criterio arcaico per valutare il lavoro: quello fisico dato da sesso ed età.

All’ordine del giorno si sentono frasi come: troppo giovane, troppo vecchio, non è un tipo di lavoro adatto ad una donna, preferiamo uomini “sposati e con figli” per un ruolo di responsabilità, è single e si può dedicare alla carriera, ti segnalo che quel collega è omossessuale. Cosa ha a che fare tutto ciò con le competenze e l’attitudine a lavorare per risultati?

E andando più avanti, non possiamo non riferirci a quell’ancora dilagante sessismo che giudica una donna prima per come appare e poi per quello che dice e che fa. Pensiamo alle donne che operano in politica in Italia, sono giudicate costantemente dall’opinione pubblica su aspetti vacui, superficiali e spesso triviali. E guardando all’Europa, Governi di Paesi così detti all’avanguardia contro ogni forma di discriminazione sembrano dei boys’ club.

Pensiamo all’esplosione dello smart working, interpretato dai più come una opportunità per le donne. Lo è davvero? Affinchè lo smart working non si trasformi in un elemento di ulteriore “gender gap è importante che le aziende tengano presente il tema delle cure parentali (quasi sempre a carico delle donne o dei single) affiancando allo smart working, lo smart caring ovvero sollevare i dipendenti - caregiver (il 70% sono donne) dal carico mentale delle cure parentali (figli, genitori anziani). Baby sitter, campus estivi, servizi per i dipendenti con familiari non autosufficienti (consegna dei pasti a domicilio ai genitori anziani, intervento personale infermieristico, terapisti per gestire la routine con figli con bisogni speciali) e gestendo le regole interne di adesione allo smart working non su base volontaria ma organizzata con una logica di equità tra donne e uomini, tra single e sposati, tra giovani e senior in modo da evitare che si crei un doppio binario, gli uomini in ufficio a decidere e le donne collegate in remoto ad ascoltare.

Altro freno, più recente ma non per questo meno forte è legato alle nuove professioni della digital era: il settore in più rapida crescita è il data science e lo sviluppo dell’A.I., settore ancora maschile. A livello globale solo 15 donne su 100 perseguono questa carriera: squilibrio di genere che non solo minaccia la crescita sostenibile della società ma anche la sicurezza e l’imparzialità della intelligenza artificiale. Nelle grandi aziende tecnologiche il vero potere è detenuto soprattutto da ingegneri e sviluppatori che sono in buona parte uomini che inseriscono negli algoritmi i loro pregiudizi inconsci (l’app Salute di Apple Watch non considera ad esempio il ciclo mestruale). Affinchè il Machine Learning e il Deep Learning - che funzionano proprio attraverso l’uso dei dati - diventino risorsa preziosa è necessario che siano prima di tutto studiati da una pluralità di cervelli. La diversity intesa come pluralità e non solo come inclusione di genere è una ricchezza anche del data science e nel coding.

La scarsa presenza all’Università di donne nell’area “Stem” (acronimo che identifica le discipline tecnico-scientifiche) è un fattore preoccupante determinato da stereotipi culturali e sociali che vanno ad influire sulle scelte di percorsi di studio. Ancora oggi le ragazze tendono a scegliere percorsi di studio umanistici rispetto a quelli scientifici poiché li considerano funzionali a sblocchi lavorativi adatti al proprio sesso. La diseguaglianza di genere determina la mancata valorizzazione dei talenti, nella ricerca e nel sapere. Per contrastare la perdita di talenti è necessario parlare alle giovani ancora prima che arrivino nelle aule universitarie. Bisogna potenziare l’orientamento finalizzandolo ad una maggiore apertura critica e offrire pari opportunità di scelta. E’ necessario sostenere chi fa ricerca e introdurre politiche specifiche (sostegno, conciliazione lavoro famiglia, reclutamento) per diminuire il gender gap. Creare un ambiente di formazione e di lavoro inclusivo permette di accrescere il benessere di tutte e di tutti consentendo ad ogni persona di esprimere al meglio le proprie qualità. Da dove iniziare? Il primo rimedio è rompere gli stereotipi: non ci sono lavori per donne o per uomini, bisogna educare fin da piccole le bambine a essere insistenti e a non aver mai paura di chiedere per ottenere ciò che meritano.

Un termine che sarà importante abbandonare insieme al periodo che, presto o tardi, andremo a chiudere?

Performance, prestazione e successo a tutti i costi. Abbiamo sperimentato, in questa emergenza sanitaria, che le scelte in nome del “solo successo economico” portano con sè conseguenze. Disinvestire nella sanità e nella scuola – per l’obiettivo della performance dei conti – ci ha fatto pagare un prezzo salato. Seguire il guadagno e i margini a scapito dell’ambiente o della sicurezza delle persone ha determinato spesso effetti “irrimediabili e definitivi”.

Considerare “di successo” una vita professionale e privata ricca di impegni e “ad alta prestazione” ci sta facendo pagare un conto “privato” salato e drammatico in termini di tenuta psicologica nel distanziamento sociale imposto dalla pandemia.

E quindi lasciamo indietro parole come prestazione, performance per fare spazio a nuove parole come errore, fallimento, imperfezione. Finora nelle aziende la prassi è stata quella di nascondere gli errori, puntando il dito e scaricando le responsabilità in nome della difesa della propria reputazione. Solo di recente si è iniziato a parlare di cultura del fallimento, propedeutica alla sperimentazione al cambiamento. Avere l'umiltà di accettare gli sbagli proprio e altrui in un mondo con poche certezze può aprire la porta a nuove opportunità.

Senza contare che aumenta la serenità dei collaboratori, più incoraggiati a percorrere sentieri inesplorati. Secondo alcuni autori la vulnerabilità - oggi - e l’agente più importante di Change Management e il leader ha necessariamente il ruolo della responsabilità della trasformazione nel definire la vision e nel dare senso e direzione alle persone sapendole ascoltare, motivare e incoraggiare.

E passando dal lavoro alla famiglia, smettiamo di allevare le nostre figlie e i nostri figli per farli diventare dei talenti, confondendo una vita piena di impegni con una vita realizzata; insegniamogli a riconoscere le emozioni, alleniamoli ad essere felici.

© RIPRODUZIONE RISERVATA