«Ciao mamma, vado in Messico». La vita come un film dello Chef Resvan Costa

«Ciao mamma, vado in Messico». La vita come un film dello Chef Resvan Costa
di Luca Marfé
Domenica 24 Gennaio 2021, 16:22 - Ultimo agg. 10 Febbraio, 16:20
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Ciao, mamma: vado in Messico.

Sembra il titolo di un film e invece è la storia dello chef Resvan Costa.

Uno spirito libero, il corpo come una tela di tatuaggi e, soprattutto, la passione e il talento dei fornelli.

«Vengo dalla Calabria e ho fatto economia a Roma; ho vissuto lì per anni. Mio padre è commercialista, ma non era affatto quello il futuro che desideravo per me».

Esordisce sicuro, aveva già le idee chiare.

«Mi era sempre piaciuto cucinare a casa, ma della cucina non sapevo nulla. Poi l’amicizia con un ragazzo di un ristorante molto noto della capitale: certe volte improvvisavo, mi ritrovavo a lavorare là».

Fino al pensiero di provarci per davvero.

«Volevo prendermi il diploma, quindi mi sono iscritto al corso serale dell’alberghiero. Avevo già 27 anni, da un lato sentivo che, chissà, magari era tardi. Dall’altro invece, tanta, troppa voglia di farcela».

La famosa fortuna che aiuta gli audaci e così:

«Un professore mi chiamò e mi chiese se volevo fare l’apprendistato a Vibo Marina in uno stellato. Cala del Porto, cominciai lì».

Gli brillano un po’ gli occhi e continua:

«Finito quel periodo di prova, valso come fosse un master o forse più, volevo rituffarmi altrove, lontano dalla Calabria, e allora tornai a Roma. Senza mai perdermi d’animo per certi deserti, cercai lavoro e un giorno andai in un hotel a Via Veneto per parlare con uno chef molto conosciuto: dissi a Gaetano Costa “Ti lavoro anche gratis per due mesi, poi se puoi assumermi, bene. Conta su di me. Non avevo chissà quale esperienza, ma la mia fortuna è stata il mio ostentare, crederci così da fargli credere che sapessi davvero marcare una qualche differenza. La verità è che non potevo permettermi di non lavorare».

Periodo tosto, ma determinante.

«Per due mesi ho sofferto tanto e per fare la lavatrice mi lavavo i vestiti con il sapone dei piatti. Mangiavo parecchio al ristorante per paura di non mangiare a casa, dove al massimo mi preparavo qualche piatto di pasta in bianco. Lavoravo 12 ore al giorno, minimo. Ero sempre lì, a farmi il mazzo».

Fa una pausa che quasi non ci crede nemmeno lui. Riprende.

«Lo chef mi diceva “Antonio sai fare questo?” Rispondevo sempre di sì, poi correvo a cercare su internet. Lo facevo perché avevo paura che mi cacciasse».

Prova dunque a tirare le somme:

«È stata un’esperienza fondamentale. Dopo un anno avevo imparato un sacco di cose, ma non ebbero modo di rinnovarmi il contratto. Da un lato fu una fortuna, la mia. Su un gruppo di Facebook, conobbi una ragazza che diventò poi la mia fidanzata. Mi disse “Perché non te ne vieni qui, in Francia?”.

Partii».

Dall’Italia manca oramai da parecchi anni, ma nei suoi occhi neri non ha impressa la classica nostalgia.

Anzi, quasi si toglie qualche sassolino dalla scarpa.

«Mentre negli altri Paesi il cuoco è una figura professionale rispettata, da noi non è sempre così: per quanto tu sia bravo, rimani sempre e soltanto un cuoco. In Francia ho avuto un’impressione completamente diversa. La mia prima esperienza all’estero, il mio primo, vero, grande cambio di marcia».

Si spiega meglio.

«Stavo molto bene, hanno un concetto del mestiere molto alto. Lavoravo per un ristorante siciliano, La Masseria, molto bello. Sono rimasto lì per un po’, ma poi ho puntato tutto sul mio sogno di sempre: quello di traferirmi in America. Mi è capitata una grande occasione e, boom!, sono volato a New York. La mia ex è venuta con me e in una settimana eravamo già lì. Sono arrivato nel 2015, non conoscevo né l’inglese né lo spagnolo. In realtà, non conoscevo niente e nessuno. Poco dopo, mi sono lasciato anche con lei e sono rimasto completamente da solo. Avevo parecchia paura, ma altrettanta voglia di farcela. Le due cose vanno a braccetto, poi sta a te decidere da che parte far pendere la bilancia del destino».

Di colpo, è l’incarnazione del Sogno Americano.

«Me ne andavo per la città a sventolare curriculum. Il mio primo lavoro? Chef privato per un principe arabo. Il maggiordomo della casa era di Procida e ci ritrovammo ad andare subito d’accordo. Rimasi lì per qualche mese, poi il principe si spostò e io me ne andai, pronto a rimboccarmi di nuovo le maniche. È stato tutto così, tutto un eterno ricominciare da zero».

Ricominciare da “Napoli”, peraltro.

«Un ragazzo napoletano mi disse “Vieni a lavorare da me. La seconda esperienza è stata lì, da Mandolino, una pizzeria napoletana. Ho avuto l’opportunità di esserne il cuoco, è stata un’esperienza fantastica. Ci sono rimasto per circa un anno e mezzo, poi hanno chiuso di botto per un litigio».

E niente, di nuovo senza lavoro, ma l’America è la terra delle opportunità, no?

«A New York non è un dramma, o almeno non lo era», sbuffa contro la pandemia di Covid-19. «Ero in difficoltà, certo, perché stavo per sposarmi con una ragazza americana, avevo tante spese e mi sono ritrovato tra mille ansie. Mi sono messo a fare pure il cameriere, un po’ per necessità, un po’ paradossalmente per cambiare, per prendermi una pausa dalla cucina. Avevo bisogno di fare molte più ore e alla fine ho cercato di nuovo un lavoro più “semplice”, più mio».

Il caso lo ha voluto a SoHo, in un ristorante greco.

«Non conoscevo la cucina greca, ma ripresi da lì, dove mi sono fermato parecchio, per un anno e mezzo circa. Mi trovai talmente bene in cucina che imparai tutte le ricette e diventai quasi un “altro” chef, dopo che la mia vita precedente da chef se n’era in qualche modo andata. Presi in mano tutto. In primis, di nuovo il mio destino. Lo ricordo come un bel periodo».

Il ricco quartiere di SoHo, però, non poteva mica permetterselo.

«Mi trasferii nel Queens e ancora una volta la sorte: incontrai per caso un ragazzo che non ricordavo di aver conosciuto anni prima. Mi disse che stava aprendo un ristorante e che aveva bisogno di un bravo chef italiano. Altra occasione perfetta, altro inizio. La mia ultima fase a stelle e strisce, il Botte Bar. Poi un sogno ulteriore, quello di adesso: il Messico».

Nel frattempo, tanti casini. Ha divorziato, per esempio. Ma cambia tono e sguardo, si illumina.

«La pandemia ha distrutto tutto e allora l’ennesima svolta: Léon. Sono qui da qualche mese, sono tanti a raccontarci già come il miglior ristorante della città. Non che ci voglia poi tanto», si prende un po’ in giro e si fa una bella risata. Il motivo è semplice: «Sono l’unico chef italiano del posto».

Non è uno da prime impressioni né da pregiudizi né da troppi ragionamenti. Se ne avesse avuti o fatti, non avrebbe certo vissuto una vita così, così avventurosa.

«Mi vengono quelle che io chiamo le “fulminate”, non mi fermo mai a pensare, tuttora non mi rendo conto di quello che ho fatto».

Il confronto con New York è impietoso, ma lo diverte.

«Negli Usa lo stipendio era molto diverso, qui ti pagano una cifra ridicola, peraltro ogni 15 giorni. Ma chi se ne frega, non ci penso nemmeno, amo viaggiare, mi faccio trasportare dall’istinto, prendo e parto. Io vivo così. New York mi è rimasta dentro, ma mi aveva comunque stancato. Avevo voglia di cambiare, di smetterla di essere soltanto un ingranaggio del meccanismo produzione/consumo».

Casa Costa, questo il nome del suo ristorante qui, è, finalmente, un progetto tutto suo.

«Faccio cucina gourmet, non pasta…alla (finta) bolognese. Ho avuto una fase sperimentale, che considero affascinante, addirittura senza menù: coi camerieri che portavano solo i piatti e con me che mi ritrovavo lì a spiegarli, a cambiarli ogni santo giorno».

Poi la scelta definitiva della rivisitata, non esagerata, ma con un tocco speciale.

Per concludere, ancora qualche “stoccata” di franchezza sullo Stivale, oramai lontano.

«L’Italia non mi manca, sono al corrente di tutto, leggo mille notizie, ma non ci tornerei mai. Ahimè, siamo rimasti un sacco indietro. Abbiamo tantissime potenzialità, ma ci perdiamo, siamo bravissimi a incartarci in troppe polemiche».

Battuta lapidaria, poi. A tratti illuminante.

«A New York la gente ricca va in giro con le cose strappate. Gli italiani il contrario, vivono di apparenze che manco possono permettersi».

Infine su di sé:

«Con l’America ho avuto un bel rapporto, ma ho sempre e solo lavorato. Per il resto, sono geloso e perfezionista. Ho messo la faccia in tutto ciò che ho fatto. Mi piace il contatto con la gente, mi piace essere al centro dell’attenzione. Lo dicono anche tutti i tatuaggi che indosso».

Guarda al futuro, ma gli basta questo presente nuovo, avvincente.

«Amo il mio “adesso”, sono in Messico e la mia testa e il mio cuore sono qui. Sto bene così, voglio rimanerci per un bel po’ e se ho un ristorante, voglio avere il miglior ristorante. Non ho sogni da stelle Michelin. Se arrivano, bene. L’importante, però, è dare il meglio e basta. Sempre».

(Ha collaborato la giornalista Roberta Testa)

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