Hikikomori, chi sono quei ragazzi sempre chiusi in camera, immersi nel web che non vanno a scuola

Ragazzi chiusi in casa, sempre immersi nel web, niente scuola: gli hikikomori
Ragazzi chiusi in casa, sempre immersi nel web, niente scuola: gli hikikomori
di Davide Tamiello
Martedì 30 Agosto 2022, 09:39 - Ultimo agg. 13:37
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 Rimangono chiusi nella loro cameretta, restano svegli di notte e dormono di giorno, non vanno a scuola e non vedono più gli amici. Non per qualche giorno, ma per mesi e mesi. In Giappone, dove il fenomeno è esploso in massa negli anni ‘80, li chiamano hikikomori(Foto tratta dal cortometraggio Soli, insieme del regista bellunese Lorenzo Cassol): giovani e giovanissimi che si autoescludono dalla società. Una condizione di disagio arrivata dall’estremo oriente e approdata anche in laguna: a Venezia, nel 2021, sono stati riscontrati i primi tre casi. Tre ragazzini tra i 15 e i 16 anni che, dopo l’isolamento forzato legato al covid, dopo la didattica a distanza e il lockdown, non sono più usciti di casa. «Abbiamo un caso particolarmente grave - spiega Ambra Cappellari, responsabile del polo adolescenti di Mestre e Venezia che attualmente li ha in cura - che non esce più dalla sua camera, e due più lievi, che vivono un isolamento parziale. Questo significa che almeno una volta ogni quindici giorni vanno a scuola». 

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Il fenomeno

Hikikomori in giapponese significa “staccarsi”, “ritirarsi”. E in effetti è la forma più estrema di ritiro sociale, in isolamento nella propria casa. «In realtà non esiste ancora una definizione ufficiale - aggiunge Moreno De Rossi, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Ulss 3 - nel senso che non è stata ancora inclusa nei manuali. Ma il fenomeno è in espansione per cui sono stati delineati alcuni criteri di massima per riconoscerlo: il marcato isolamento in casa e il rifiuto delle relazioni sociali, deve durare almeno sei mesi e deve portare a una significativa compromissione sul piano funzionale. Significa, cioè, che la persona non va a scuola o al lavoro». Esiste una diversa gradazione di gravità, come si è visto anche per i tre adolescenti veneziani, la fascia d’età maggiormente colpita va dai 15 ai 30 anni e riguarda soprattutto i maschi (le stime dicono che il rapporto è circa 9 a 1 rispetto alle femmine).

In Giappone ne soffre l’un per cento della popolazione (quindi si parla di circa un milione di persone) mentre in Italia sono stati diagnosticati finora circa 20mila casi. 

«C’è chi la definisce una “Depressione moderna” - continua De Rossi - che si sovrappone alla fobia sociale che ma ha anche caratteristiche ben precise: la tendenza a connettersi sempre in rete, per esempio. Rifuggono le relazioni reali, ma fanno crescere quelle virtuali, con chat e videogiochi online. Una delle ipotesi e che possa essere una reazione alla grande pressione che sentono i giovani: autorealizzazione, un’immagine vicente da dover dare per forza. Non a caso il fenomeno è nato in un Paese in cui il livello prestazionale richiesto è molto alto. Questi ragazzi è possibile che scelgano (inconsciamente, anche) questa forma di suicidio sociale per opporsi alla pressione».

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Effetto Dad


Questi tre casi sono stati intercettati nel 2021, in concomitanza con la ripresa delle scuole in presenza. Sono aumentati, in realtà, tutti i casi di ritiro scolastico (ragazzi che non vanno più a scuola, gli hikikomori sono le situazioni più estreme di questo ritiro sociale): all’Ulss 3 ne vengono segnalati dieci al mese. «Le chiusure hanno influito - prosegue il direttore - parliamo di soggetti fragili che, durante la Dad, hanno provato un senso 
di sollievo dall’ansia.
Per loro probabilmente è stato impossibile, quindi, tornare alla vita precedente al covid». Come stanno, adesso, questi ragazzi? «Stanno lentamente migliorando - spiega Cappellari - anche quello più grave ha cominciato, lentamente, a tornare in classe. I casi ci sono stati segnalati direttamente dai genitori, ma in ritardo, quando ormai le forme erano già acute». Non c’è una vera e propria terapia, non c’è una cura. In questi casi si è costretti a procedere per tentativi: «Cerchiamo di entrare nel sistema del ragazzo, non possiamo chiedergli banalmente di uscire - prosegue la dottoressa - Dobbiamo capire quale sia il vuoto che cerca di colmare e trovare qualcosa con cui lui stesso possa riempirlo. Per essere chiari: se è dipendente da internet, non posso togliergli la connessione e pensare di risolvere il problema». Fondamentale per gli specialisti che la famiglia collabori («molto spesso la vergogna iniziale è un blocco, bisogna accettare di avere una nuova dinamica in casa: i miglioramenti arrivano dove i genitori ci seguono») ma che anche la scuola accetti di cambiare prospettiva. «Gli istituti devono prevedere un percorso didattico su misura per questi adolescenti - conclude Cappellari - anche perché questi tre adolescenti sono ragazzi molto intelligenti, non possono e non devono rimanere indietro a causa di una loro fragilità».

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