Da Salerno a Miami, Maradia Design di Marco Coccorullo:
«Come un sarto, realizzo su misura le case dei milionari»

Da Salerno a Miami, Maradia Design di Marco Coccorullo: «Come un sarto, realizzo su misura le case dei milionari»
di Luca Marfé
Domenica 4 Settembre 2022, 08:26 - Ultimo agg. 10:51
8 Minuti di Lettura

MIAMI - I campani hanno una marcia in più e Marco ne è l’ennesima e innecessaria prova.

All’anagrafe Coccorullo, 45 primavere addosso, radici forti di Salerno alle spalle, oggi interior designer stellare in una Miami folle.

Ha lo sguardo vivo e vivace del genio, mentre si muove in un vertiginoso attico che sta arredando, letteralmente inventando.
Sfiora i mobili e le pareti come fossero animati, come se avessero un’anima, come se li stesse accarezzando, rassicurando, coccolando.

Sembra parlare a loro, ma si rivolge un po’ anche a tutti:
«I miei primi passi? Dopo il diploma. Ma in questo mestiere ci sono cresciuto dentro».

E dentro gli è cresciuta la passione, quasi l’ossessione, per ogni singolo dettaglio.

«Mio nonno disegnava oggetti, interi progetti di case di alta ebanisteria. Lavorava con mezzo mondo, per quanto fosse innamorato e geloso del suo negozio di Salerno. Lui la mia grande ispirazione. Io, invece, col mio sogno di evoluzione».

Nonostante l’eleganza e i tanti traguardi già tagliati, tra i mille luccichii della capitale del futuro, c’è un che di umile nei suoi occhi e nel suo tono di voce garbato.

«Con mia Madre e con mio Padre - ti chiederei di scriverli con la maiuscola, tanto hanno significato! - dal 1994 abbiamo avuto due negozi con i migliori marchi di arredamento.
In particolare, il primo dei due, “Boffi Studio”, orgoglio del Sud Italia, a Nocera Superiore.
Oggi fioccano aziende incredibili, più che di design e di arredamento, di autentica arte. Non è facile diventarne concessionari, e ancora più difficile è gestirne tante insieme, perché bisogna garantire determinati volumi di affari e, soprattutto, perché bisogna conoscere a fondo per pensare di poter spiegare, e questo assai prima di vendere».


Strizza gli occhi al boom degli anni 2000, vero crocevia indovinato del suo destino, professionale, ma anche personale.

Il passo americano, dunque.

«All’inizio del secolo e del millennio, oramai più di vent’anni fa, ho realizzato che tanti marchi erano propensi a orientarsi verso questi mercati. Prima gli affari si muovevano nei confini, e i soldi restavano in Italia. Adesso tutto si è sbilanciato sull’export e, chissà, forse il colpo di genio è stato intuirlo con un attimo di anticipo. Un “attimo” che, senza voler peccare di mancata modestia, si è rivelato lungo più di 10 anni».

Sorride, ma paradossalmente più che di soddisfazione per sé, di amarezza per il suo Paese.

«Ho iniziato a ragionare così nel 2006, nel 2012 sono arrivato in America, nel 2016 l’Italia è sprofondata in una crisi spaventosa. Negli Usa non è facile niente, in giro c’è un’ambizione enorme, accompagnata però da una competizione feroce. Specie quando non sei di queste parti, non sei conosciuto, e magari fai pure un mestiere particolare. Un ristoratore apre un posto e bene o male sta sulla strada. Nel nostro mondo è diverso. Quando non hai nessuna storia, non è facile che un’impresa ti affidi dei lavori, specie se dei lavori importanti. Mi hanno aiutato i brand, affiancandomi in termini di esperienza, di opportunità, e naturalmente sulla base della solida fiducia di sempre. Ci siamo spalleggiati in un reciproco gioco di amicizia, opportunità e risultati».

Con delle geografie, però, che nel tempo sono cambiate.

«Attenzione», scandisce infatti, «all’inizio, ero a New York. Molto difficile, ancora più difficile», si strofina pensieroso la punta delle dita.

«I miei primi lavori? Tra gli amici newyorkesi e italiani, felicissimo, ma complesso. Nel frullatore della Grande Mela, di una città in perenne movimento perennemente distratti da mille accadimenti, il mio lavoro è men che mai visibile. È nascosto dietro acciaio e vetro, tra le cime lontane dei grattacieli. Miami invece è in qualche modo più esposta, è un posto più concentrato in cui tutto diventa potenzialmente più vetrina, la mia vetrina.
Eppure nessun dubbio, interessantissime entrambe».



Ma si sofferma ancora un lungo attimo tra Manhattan e dintorni, dove vanta enormi ragioni di cuore.

«4 anni stupendi, seppur tra visti brevi e proroghe, fino poi all’investimento definitivo, e soprattutto alla nascita di mio figlio Simone. Lui porta fiero il nome del mio nonno materno, titolare a sua volta di un’antica falegnameria. Che ricordi!», e qui quasi gli scappa una lacrima, «Finivo i compiti e scendevo di sotto, tra i ricci del legno e i profumi della bottega. Che orgoglio che il mio erede porti il nome suo. Lui e suo fratello, zio Mario: conservo ancora la mia prima barchetta fatta di legno».

Insomma, prima Simone e poi Miami, è il maggio 2016, arrivano un paio di commesse importanti.
La svolta.

«L’America mi ha fatto riemergere, sono ancora più entusiasta di come riesca ad esprimermi qui negli Stati Uniti.
Il mio terreno fertile, una sorta di medicina per la vita che consiglierei a chiunque».
«In Italia andavamo bene, certo», prosegue sincero e piuttosto sicuro di sé, «ma ho percepito forte la crisi in arrivo. Quando invece mi “affacciavo” in America, la crisi non sapevano nemmeno che cosa diavolo fosse».

Marco Coccorullo è una sorta di incarnazione dell’equilibrio tra fascino italiano e sistema americano, tra mentalità nostra e circuito Usa.
Un giovane monumento alla credibilità, da tutti i punti di vista.

«E chi non è in crisi», riprende di colpo, «non bada a spese».

«L’arredatore di oggi, ma anche e soprattutto del futuro, è chi riesce a far funzionare nella tua casa la macchina industriale al fianco di quella…sartoriale, ovvero dell’artigianato più raffinato. Già: proprio come un sarto, disegno su misura le case dei milionari di dollari».

Una frase che di per sé spiega tutto, e ancora:

«Ho peraltro la capacità di disegnare sempre e puntualmente cose che finiscono col complicarmi parecchio la vita. Quando faccio qualcosa, qualsiasi cosa, la faccio come se la facessi per me.

Credo che questa marcia in più venga percepita forte dal cliente, da chiunque mi circondi in generale, mi auguro da te, ma pure da chi ci legge. Cerco con la mia inventiva, a tratti spericolata, di offrire qualcosa di particolare, per migliorare la funzionalità degli spazi affinché non soltanto non siano mai banali, ma travasino in un surplus di funzionalità e di bellezza».

È emozionante ascoltarlo perché non è solo testa, ma è anche e soprattutto cuore.
La passione colossale per un mestiere.

«La fabbrica non può fare tutto. Ci sono cataloghi da migliaia di pagine, ma manca quel tassello ultimo che voglio essere io. Dove gli altri si fermano, specialmente in America,  dove hanno tanti pregi, ma un blocco culturale e anche aziendale. Io quel blocco lo faccio saltare, spesso improvviso, ma alla fine riesco. E ne viene fuori un prodotto e anche un’esperienza che sono unici, proprio come un abito sartoriale. Concetto che, su tutti quanti gli altri, resta il mio Nord. Anzi, il mio…Sud!», da buon campano, sorride di gusto.

Ma dov’è che nasce il nome della vostra azienda, “Maradia”?


«Marco e Nadia. Ci siamo conosciuti nel 2004 a Salerno.
Lei assolutamente meravigliosa: appassionata da sempre di ceramica e design, con alle spalle la sua famiglia materna che faceva esattamente lo stesso mestiere dei miei nonni.
Lei assolutamente fondamentale: mi ha spinto molto a fare tutto questo, a insistere quando a New York volevo quasi mollare, mi ha letteralmente dato la forza e la caparbietà per essere qui, solido e sorridente, adesso.
Oggi siamo una squadra, arricchita dall’occhio femminile, naturalmente più raffinato e dunque, in particolare in questo mondo, addirittura determinante.
Per non parlare poi di strategie e di visione.
Proprio adesso, per esempio, mi sta facendo ragionare su possibili investitori, acquisti, ristrutturazioni e dunque consegne finali. Idee che in un mercato immobiliare in crescita feroce, com’è quello di Miami in questo preciso momento storico, possono rivelarsi fondamenta di autentiche rivoluzioni».

Una Miami che non si è mai fermata, «mentre mi ha un bel po’ fermato l’Italia, almeno per un anno, specie in termini di paure, anche mediatiche».

Una Miami «oggi a mille all’ora, la città del futuro che è già presente adesso. Quasi inspiegabile, tutti vogliono stare qua, tutti vogliono investire qua, neanche si riesce a stare dietro a tutto quanto. Un sogno».

E il suo? Qual è il suo sogno?

«Uno studio di servizi. La cosa più lontana del mondo da un negozio. Io non voglio aspettare i clienti. Io me li voglio andare a cercare, e non soltanto a Miami, ma in tutti gli Stati Uniti e, perché no, in ogni angolo del mondo. Questo è solo l’inizio, noi campani siamo così: affamati e pure un po’ folli. Ma folli nel senso buono, nel senso migliore».

Per concludere, un consiglio per i giovani italiani…

«Quasi dovrebbero fare un tour di lavoro qui negli Stati Uniti: venite a vedere come si lavora qui e poi tornate alla base e mettetevi all’opera. Senza necessariamente dover andare via, altrove. Ma magari “soltanto” facendolo in Italia, appunto.
Il mondo è un’intera spugna da cui si può assorbire tanto.
E l’America, e Miami in particolare, davvero non ha eguali al mondo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA