Giorgio Martino: «Maradona e il gol del secolo, quelle mie telecronache nel segno della sobrietà»

Giorgio Martino: «Maradona e il gol del secolo, quelle mie telecronache nel segno della sobrietà»
di Angelo Carotenuto
Domenica 14 Agosto 2022, 08:59 - Ultimo agg. 15 Agosto, 09:58
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Disse due volte splendido, una volta stupendo e due volte strepitoso. Fine. Era già abbastanza. Quando sotto gli occhi di Giorgio Martino passò il gol del secolo, le telecronache di calcio si facevano così. Maradona aveva scartato tutta la difesa dell'Inghilterra senza mai scollarsi dai piedi il pallone, era successo ai Mondiali, quattro minuti dopo il gol segnato con la famosa mano di Dio. Due momenti storici nella stessa sera, nello stesso stadio, nello stesso racconto. Ma dal microfono sistemato dentro la cabina della Rai in cima allo stadio Azteca di Città del Messico, uscì un flusso di decibel inferiore a quello che in genere ci accompagna per un tiro come tanti.

«Era stato un motivo di soddisfazione professionale, aver colto subito il fallo di mano e aver fatto il confronto con un gesto simile di Piola all'Inghilterra. Ma un'azione come la seconda, non l'avevo mai vista. Né si vedrà mai più. Il calcio si è incattivito, nessun difensore permetterebbe a Maradona tutta quella bellezza. Non arriverebbe mai in porta. Come si sente dire ora: spenderebbe un giallo. Non gridai e non lo chiamai il gol del secolo. Oggi una parata è pazzesca, una partita è pazzesca, tutto è pazzesco. Dimenticando due cose: che abbiamo un vocabolario ricco e che nel calcio, grazie a Dio, ci sono pure momenti in cui non succede niente. Il silenzio va rispettato. La noia va rispettata».

Oggi all'Azteca griderebbe di più?
«La mia generazione non ha mai avuto il tono sciovinista dei francesi, non esibiva la propria cultura e non ha mai gridato. Nemmeno per la Nazionale. Se a distanza di 40 anni, ricordiamo ancora Nando Martellini che disse tre volte campioni del mondo, significa che la compostezza era un valore. In telecronaca si usava il Noi. Abbiamo visto, ci sembra che. Ma non era un plurale maiestatis. Anzi. Era una diminutio, era come spogliarsi dell'Io. La regola era che le emozioni personali si tengono per sé. Conta l'efficacia del racconto, non la violenza della propria gioia».

Intanto il suo collega argentino Hugo Morales diceva: Goool, voglio piangere, Dio Santo, viva il calcio, mi viene da piangere, barrilete cosmico, da quale pianeta sei venuto, grazie Dio per il calcio, per Maradona, per queste lacrime. Ecco. Che effetto le fece quando lo sentì?
«Guardi che io non l'ho mai sentita. Mai. Sul serio. Me ne hanno parlato, ma non ho avuto la curiosità di recuperarla.

Non siamo al festival di Sanremo. La mia generazione ha interpretato la professione con un senso preciso del servizio pubblico. Non eravamo noi i protagonisti. Non si poteva avere un tono sguaiato. Quando si parla di telecronaca alla sudamericana, non si indica certo un difetto, ma nemmeno può essere un merito. È un concetto diverso. Non è peggiore, non è migliore. Io non avrei potuto dire barrilete cosmico. Non apparteneva al nostro codice di sobrietà».

Da ascoltatore le manca quel codice?
«Oggi non si racconta più la partita, parlano d'altro. C'è stata una mutazione genetica nella professione. Noi sapevamo di entrare in casa delle persone e non potevamo farlo gridando. Era una questione di rispetto, di correttezza e di serietà. Adesso il racconto di un'azione è accompagnato da una sequela di dati statistici che non servono. Se mi racconti che Tizio ha cominciato a giocare a 13 anni, forse in quel momento non me ne frega niente. La cosa più bella della partita è la partita».

Non le piace la guida tecnica di una seconda voce?
«Quando Maradona segna con la mano o fa il gol del secolo, la prima cosa da restituire è il fascino. Una seconda voce porta invece alla chiacchiera. Diventa difficile riprendere in mano il racconto. Infatti spesso si sente dire: occhio. Come sarebbe: occhio? Lo dici a me? Sei tu che devi avere occhio, sei tu che ti stavi distraendo».

Non è una terminologia sempre esistita?
«La terminologia spingeva a dire casomai che la palla fa la barba al palo. Lasciava intendere una certa situazione. In giro vedo della sciatteria linguistica, una deriva allo psittacismo, l'imitazione meccanica di un'espressione. C'è chi parla di coreografia delle curve anziché di scenografia. Le coreografie le faceva Don Lurio con le ballerine. Ci sono quelli che dicono: cambia l'inerzia della partita. Semmai è il contrario, cambia la direzione della partita. L'inerzia è una condizione di immobilità, uno stato di quiete. Oppure sento: tira col mancino. Ma il mancino è una persona, non è un sinonimo di sinistro. Altri ancora: tira con il destro. No, si tira di destro. È un complemento di modo, non di mezzo. Il complemento di mezzo fa al caso del tennista che tira con la racchetta. Lasciamo perdere poi i motori, dove si sentono espressioni davvero sguaiate».

Non ha inventato anche lei un'espressione? Eurogol nacque con il primo programma di calcio internazionale.
«Arrivavano le immagini in bassa frequenza, tre o quattro volte al giorno da ogni paese dell'Eurovisione. Erano detti riflessi filmati, in gergo Evelina. Passavano e andavano perse. Qualche volta era un incendio della Foresta Nera, altre volte i gol delle Coppe dall'Est. Proposi a Maurizio Barendson di raccoglierle e mandarle in onda il giovedì sera. Spesso arrivavano dall'estero senza nemmeno il nome dell'autore del gol. L'unico giornale italiano che se ne occupava era il Guerin Sportivo. Il collega Stefano Germano aveva dei contatti e ci indirizzava: guardate che ha segnato Anderson, o Filipovic. Un clima pionieristico. Credo sia stato utile a far nascere un certo interesse. Così, una sera, un medianotto danese segnò da lontano e mi venne da dire: è proprio un eurogol. È rimasto nel gergo come sinonimo di bellissimo. Ma io intendevo che non apparteneva alla nostra tradizione. Era raro in serie A segnare da fuori area».

Come si formava e come si informava un telecronista prima di Internet e di tante immagini?
«Io seguii un corso durato 6 mesi: 8 ore di lezione al giorno dopo aver vinto il concorso. In Rai insegnavano le differenze di linguaggio tra radio e tv. Per il resto ci si affidava alla propria cultura personale, a giornali, libri, almanacchi, album delle figurine. Anche quelli aiutavano a riconoscere i calciatori. Frequentavamo i campi d'allenamento. Oggi Internet in fondo che cos'è? Una gigantesca raccolta di almanacchi».

Lei è stato anche il telecronista della prima partita a colori. Cosa cambiò?
«Per il telespettatore tanto. Era come la prima volta di un bambino allo zoo. Per noi meno. Fu un caso che quella volta sia toccato a me. C'era una rotazione con Martellini e Pizzul, per la telecronaca differita di un tempo di una partita. La Rai, per cautelarsi, non ne riprendeva mai solo una. Poteva sempre saltare - che so - per la nebbia. Ero su Genoa-Torino, febbraio 1977, e andò in onda quella. Ma non ricordo l'arrivo del colore come una svolta professionale. Smettemmo solo di dire che la tale squadra si trovava alla sinistra dei vostri teleschermi in maglia scura».

Perché ha fatto questo lavoro?
«Ho avuto la fortuna di raccontare dei momenti storici. La Valanga Azzurra di Thoeni alle Olimpiadi di Sapporo, la prima medaglia del nuoto di Novella Calligaris. Oggi non fa effetto, oggi gli italiani vincono tutto. Ho iniziato perché sentivo alla radio le imprese di Fausto Coppi e sognavo di andare a una Cuneo-Pinerolo. Ho raccontato i trionfi di Merckx e i 7 ori olimpici di Mark Spitz, ma ho sempre evitato i confronti tra le epoche. Ogni tempo ha i suoi codici e i suoi campioni. Coppi era il mio idolo, Merckx il mio lavoro, l'ammirazione è stata uguale. Non si può dire chi sia stato più grande tra Spitz e Phelps».

Nemmeno che Maradona è stato meglio e Pelé?
«E nemmeno che qualcuno oggi sia più bravo di Maradona».

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