Massimiliano Marotta e papà Gerardo: «Quel letto invaso da mille libri e lui che dormiva sulla branda»

Massimiliano Marotta e papà Gerardo: «Quel letto invaso da mille libri e lui che dormiva sulla branda»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 5 Marzo 2021, 20:00
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«Avvocato Marotta o anche presidente: mi rivolgevo a lui sempre così nelle occasioni ufficiali. E quando negli ultimi anni l'ho affiancato alla guida dell'Istituto - e sulle sue spalle avvertiva sempre più forte il peso del tempo trascorso - anche lui si rivolgeva a me con fare solenne e istituzionale chiamandomi vicepresidente». Massimiliano, uno dei tre figli di Gerardo, fondatore dell'Istituto italiano per gli Studi Filosofici, scomparso nel gennaio del 2017 all'età di 89 anni, racconta di suo padre grande e terribile, comunista fino al midollo, incapace di dedicarsi al privato se non in rarissime occasioni, dedito al lavoro e all'impegno, sociale, professionale e intellettuale, in maniera totalitaria. Per lui - definito esemplare unico di combattente per la filosofia - bisognava essere uomini pubblici. 

Ma fino a che punto?
«Lo spiego con un esempio.

E sarà tutto più chiaro. Avevo solo sei anni, il presidente mi chiese di seguirlo in bagno, lì tirò fuori dalla tasca della giacca centomila lire. Una banconota enorme, me la ricordo ancora, sembrava un lenzuolo».

Che cosa avrebbe dovuto fare con quel danaro?
«Porta tua madre a pranzo nel migliore ristorante che c'è - mi disse - Oggi è il nostro anniversario di matrimonio e festeggiala come si deve».

Sua madre come reagì?
«Fu certamente contenta di passare del tempo con me, ma è chiaro che quella ricorrenza avrebbe preferito condividerla con suo marito».

Donna paziente, la mamma.
«Aveva capito che c'era ben poco da fare. Papà non sarebbe mai cambiato. E però, a volte, riusciva anche a essere di una affettuosità dirompente. Probabilmente a lei bastava così».

Una curiosità: perché la portò in bagno per darle quei soldi?
«Era l'unico luogo davvero riservato. Quando avevamo bisogno di parlare dei fatti nostri l'appuntamento era nella stanza da bagno».

Ma chi altro c'era in casa con voi?
«Poteva capitarci chiunque. Casa Marotta era un porto di mare. Gente che andava e veniva, intellettuali, storici e studiosi internazionali. Chi faceva tappa a Napoli, passava da noi, al civico numero 7 di viale Calascione. Poi c'erano gli habituè, quelli che lavoravano e studiavano con papà, praticamente stanziali».

Di chi parla?
«Le sorelle Croce, tanto per fare un esempio. E poi Pietro Piovani, Ennio Galzerati e Franco Pugliese Carratelli, con loro, da ragazzino, giocavo spesso a scacchi. Non era più una casa, ma un grande centro di cultura»

Vita da intellettuali, insomma.
«Invasi da libri e carte. Mio padre raccoglieva tutto e non buttava mai niente. Guai a chi osava toccare o spostare qualcosa. Alla fine dormiva su una brandina: il suo letto era coperto dai volumi».

Addirittura?
«Da non credere: perfino in bagno conservava trattati e documenti».

Per la gioia di tutta la famiglia.
«Ci siamo rassegnati quasi subito ma devo ammettere che, per certi versi, papà e io eravamo simili. Come lui conserverei tutto, e però sto migliorando. Se pure a malincuore, di tanto in tanto, faccio un po' di pulizia».

Pastrano, sciarpa e cappello anche in pieno luglio. Indimenticabile il modo di vestire di Gerardo Marotta.
«Sentiva sempre freddo, pure d'estate, a volte portava due pullover uno sull'altro. Quando cominciò a guadagnare bene con la sua professione di avvocato, mia madre gli faceva tagliare gli abiti su misura da un sarto napoletano rinomato».

Sarà stato elegantissimo, il presidente.
«Se li avesse indossati certamente. Invece metteva sempre le stesse cose. A me poi diceva che dovevo portare l'uniforme».

L'uniforme?
«Intendeva giacca e cravatta. Era nato in una famiglia della media borghesia: il modo di vestire doveva essere quello. Soprattutto per un giovane che si avvicinava al mondo del lavoro. E in questo mia madre la pensava come lui».

Dove si sono incontrati i suoi genitori?
«Militavano nel partito comunista. Si conoscevano appena quando mia madre, la compagna Mancuso, fu arrestata dalla polizia durante una manifestazione di piazza».

Conoscenza piuttosto movimentata.
«I giovani comunisti decisero che bisognava andare a trovarla in carcere. Lui - che non si tirava mai indietro - fu il primo a offrirsi e così, tra le pareti di un penitenziario, cominciò la loro storia d'amore».

Sua madre ancora non sapeva che neanche l'anniversario di matrimonio avrebbe mai festeggiato.
«Papà detestava le feste. Nel giorno del suo compleanno cercava sempre di trovarsi in viaggio proprio per evitare che qualcuno potesse pensare di celebrarlo».

Solo filosofia, legge e cultura.
«Una volta, a muso duro, glielo dissi: Papà non ti saresti mai dovuto sposare. La famiglia - che pure amava in maniera assoluta - non faceva per lui, proiettato com'era verso il mondo».

Spirito solitario?
«Se dovessi definirlo direi che è stato un grande uomo d'amore incapace, però, di gestire questo sentimento che nutriva. Quando si rese conto che la fine era prossima ricordo con tenerezza le sue parole: Mi dispiace lasciarti solo. Io ho avuto Massimiliano a coprire il mio lato debole, tu invece no».

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