New York, inflazione al 10% e lo chef campano Giuseppe Bruno: «I giovani devono ribellarsi»

New York, inflazione al 10% e lo chef campano Giuseppe Bruno: «I giovani devono ribellarsi»
di Luca Marfé
Domenica 7 Agosto 2022, 18:00
4 Minuti di Lettura

«È una politica stanca, che ha fallito soprattutto sul fronte dell’economia e del lavoro. Che ha tradito la fiducia e il futuro dei giovani».

Non usa mezzi termini lo chef campano Giuseppe Bruno. E dalla sua Manhattan lancia l’allarme per le nuove generazioni, mentre divampa l’incendio di un altro allarme, rosso, rossissimo: l’inflazione, infatti, qui oramai tocca punte folli del 10%.

Dati che fanno spavento, dopo due anni di stop forzato causa pandemia e con una New York ancora incerottata tra vetrine dismesse e negozi sfitti, persino dalle parti di Times Square.

«Lì non ci vado quasi mai, mi godo la mia Upper East Side.

Ma questa città è cambiata e resta da chiedersi se tornerà mai più quella di prima. Lo scenario è delicatissimo, quasi sul ciglio di un precipizio».

Originario di Battipaglia, sbarcato negli Stati Uniti verso la fine degli anni ’70, oggi titolare di due dei ristoranti più chic di tutta la Grande Mela: Sistina e Caravaggio, due autentici musei, infarciti di opere d’arte e con una cantina di vini da, rullo di tamburi, 20 milioni di dollari.

«Il problema non è il mio. Io, dopo tanta fatica e nel mio piccolissimo, posso dire di avercela fatta. Il problema è dei ragazzi, dei tanti giovani che animano le nostre strade, le nostre attività. Che hanno il diritto, come lo abbiamo avuto noi al nostro tempo, di sognare, di sognare in grande. Di realizzare il loro “Sogno Americano”».

Mentre parla, mentre quasi si sfoga, è un misto agitato di speranza e rabbia.

«I politici si riempiono la bocca di tante belle parole. Dal primo all’ultimo, dal presidente fino all’ultimo rappresentante locale. Sempre le stesse, spesso completamente inutili. Agitano battaglie ad arte, più o meno finte, dal razzismo all’omofobia al body shaming, per distrarre dalle questioni vere. La verità è che lì fuori c’è un Paese in cui tutto costa di più. Immaginate che la benzina soltanto uno o due anni fa costava poco più di due dollari al gallone (circa 50 centesimi al litro, ndr). Oggi ne costa 7, ovvero più di tre volte tanto. Una follia, e non è mica la sola. Tutto. Tutto costa ogni santo giorno di più. Così diventa difficilissimo fare impresa e di conseguenza garantire stabilità, opportunità concrete. E chi paga il conto? Loro, i nostri ragazzi, quelli che un futuro devono ancora costruirselo».

«Una vergogna», borbotta tra sé e sé, testardo ma amareggiato da una sorta di diffusa rassegnazione.

«Mi incazzo io per loro, che troppo spesso sembrano oramai accettare tutto passivamente. Devono ribellarsi, devono ribellarsi a questo stato delle cose, a chi pensa di poter dare la colpa al Trump di turno per sempre. Che cosa si sta facendo di concreto oggi? Per arginare l’inflazione, per rilanciare l’economia, per far risorgere il lavoro? Perché il governo, invece di regalare soldi per raccattare voti, non investe nelle piccole imprese, non offre incentivi per le assunzioni, non abbassa le tasse? Che cosa si sta facendo di concreto, oltre che giocare alla guerra, per una guerra che qui non interessa proprio a nessuno? Se mi posso permettere: niente. Non si sta facendo niente».

Scuote il capo e aspetta le elezioni. Quelle di novembre, quelle di midterm.

«Serve un segnale forte, chiarissimo, di autentica rivoluzione. Serve un cambiamento epocale, servono figure nuove che incarnino uno spirito vecchio. Quello dell’iniziativa, quello del coraggio, quello che ha reso grande questo Paese. Ho una paura fottuta che il mio resti soltanto uno “strillo” nel vuoto. Ma davvero: non si può andare avanti così. Non si può mica per me. Ma per loro, per i nostri giovani». 

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