Niko Romito, lo chef 3 stelle più a Sud d'Italia: «ll mio progetto un po' folle per reinventare la cucina»

Niko Romito a Casadonna, ex covento del '500 dove si trova il suo ristorante Reale e l'Accademia di cucina
Niko Romito a Casadonna, ex covento del '500 dove si trova il suo ristorante Reale e l'Accademia di cucina
di Francesco Padoa
Martedì 16 Aprile 2019, 20:38 - Ultimo agg. 17 Aprile, 18:19
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«Ci devi credere, mamma». La targa domina in cucina. Nella cucina del Reale di Niko Romito, a Castel di Sangro, Abruzzo, il ristorante 3 stelle Michelin più a sud d’Italia. «Abbiamo riscritto la mappa dell’alta cucina mondiale. Là, a un passo da Rivisondoli, dove sono nato e cresciuto, tra le montagne, i colori, gli odori, ha preso forma la mia cucina, là è cominciata la mia carriera. Il mio lusso è vivere e lavorare qui nella natura». Un luogo non facilmente raggiungibile, tre ore da Roma, eppure il luogo dove Romito ha costruito la base del suo “impero”.
Una follia, la definì qualcuno, cercando di farlo desistere quando Romito adocchiò quel secolare convento abbandonato sulla collina, chiamato Casadonna, per trasferirci la pasticceria, poi ristorante Reale, aperta molti anni prima a Rivisondoli da suo padre.

Fu follia?
«Sì, follia totale. Inizialmente incoscienza, ma poi anche tanta razionalità, altrimenti nessun progetto imprenditoriale può realizzarsi. Nei momenti più duri ripetevo sempre a mia mamma che doveva crederci, e lei ci ha creduto, per questo mi regalò quella targa». Così racconta lo chef, 45 anni il 30 aprile, broker mancato, facoltà di economia a Roma lasciata a pochi esami dalla laurea per la morte del padre. Lui, profondamente legato al suo territorio, decise di tornare a Rivisondoli, capace in soli 7 anni di conquistare le tre stelle.

È stata un’escalation. Nel 2018 ha conquistato il primo posto nella guida del Gambero Rosso ed è salito in 36esima posizione mondiale nella World’s 50 Best Restaurants.
«Non mi sono mai fermato. Oltre al ristorante Reale, a Casadonna ho creato l’Accademia, una scuola di alta formazione e specializzazione professionale: i miei allievi, quando finiscono i corsi, possono cominciare a lavorare a Spazio, i ristoranti-laboratorio appositamente creati per loro, per adesso a Rivisondoli, Roma e Milano. E poi ho aperto ALT: è una stazione del gusto lungo la statale che passa a Castel di Sangro, dove gli automobilisti possono fermarsi, dove la gente del posto può acquistare del pane, un pollo o una lasagna da portare via. La responsabilità delle cucine è tutta degli allievi della scuola. E Bvlgari Hotels mi ha affidato la gestione dei ristoranti nei loro alberghi di lusso a Milano, Dubai, Shanghai e Pechino».

E adesso, dopo Napoli e Milano, anche a Roma, proprio in questi giorni, sarà lanciato il nuovo format “Bomba”. Come nasce l’idea?
«La bomba era il prodotto lievitato più importante della colazione nella pasticceria di papà. Non dimenticherò mai il profumo irresistibile che si sprigionava dal pentolone in cui le friggeva e che inondava le vie di Rivisondoli».

Uno chef tre stelle che fa la bomba, anche se gourmet: sembra un accoppiamento contraddittorio?
«Ho sempre amato questo dolce e ho deciso di sviluppare anche un progetto sulle bombe salate, stesso lievitato ma con ingredienti e ragionamenti un po’ più gastronomici. Quindi oltre a crema, cioccolata o marmellata, anche ripieni salati: per esempio sgombro, cipolla arrosto e puntarelle, in omaggio a Roma. Un cibo da strada moderno, italiano. Tutto nel ricordo di papà».

Torniamo indietro nel tempo, lei si innamorò di questa location la prima volta che la vide: un colpo di fulmine… E’ vero che chiese un finanziamento di due milioni e 500 mila euro per acquistare e ristrutturare Casadonna, e poi traslocare là il ristorante Reale da Rivisondoli, dove suo padre l’aveva creato?
«Assolutamente sì. Mi indebitai fino al collo, e il peso di quella scelta mi condizionò a lungo, i sacrifici economici affrontati da me e la mia famiglia furono immensi. Ma per fortuna non ho mai avuto motivo di pentirmi. Certo, il mio lavoro è stato profondamente influenzato da quel periodo: per risolvere i problemi era necessaria concretezza, che io ho trasferito anche in cucina».

Perché quel nome, Casadonna?
«Una battuta: la maggior parte dei collaboratori che mi aiutano giorno e notte nel portare avanti i miei numerosi progetti sono donne. Ma in realtà Casadonna è un nome che affonda nel passato, abbiamo trovato riferimenti storici, che ci hanno riportato al 1500, alle origini del convento».

Ha mai avuto paura di non farcela?
«Ci sono stati momenti durissimi, come il passaggio del Reale a Casadonna. Non so nemmeno io come sia riuscito a superare difficoltà che sembravano insormontabili, ma non ho mai pensato di arrendermi. Rifiutai, allora, anche l’offerta di Bvlgari, che mi voleva affidare il ristorante nell’hotel di lusso a Tokio. In testa, ormai, avevo il progetto Casadonna, ero affascinato da quel luogo magico: io ci credevo e la mia famiglia credeva in me. Si, qualcuno pensava fossi un folle, ma avevo ragione io. Casadonna è stata la sfida più grande della mia vita, e l’ho vinta».

E infatti dopo l’apertura del Reale a Castel di Sangro arrivò la terza stella.
«Emozioni forti. Da lì cambiò tutto, sono stato proiettato in una dimensione mondiale. Di quei giorni ricordo abbracci, pianti, telefonate, un delirio di emozioni. E mia madre che si presentò, tornando da un viaggio in America, con quella targa, a ricordo di quella frase che nei momenti più difficili della mia scommessa con la vita le avevo sempre ripetuto: devi crederci, mamma».

La sua sfida gastronomica più delicata?

«Sicuramente quella del menù che presentai quando mi chiamarono in occasione del G8 all’Aquila dopo il terremoto, per organizzare la cena di gala delle first lady, Michelle Obama in testa. Il protocollo era rigido, molti ingredienti erano banditi: il pesce era consentito ma non volevo presentare qualcosa di classico e così puntai sul baccalà. Molti storsero la bocca alla mia proposta, ma alla fine fu il piatto più gradito dalle signore».

Il piatto che più lo rappresenta e che gli ha regalato grandi soddisfazioni?
«Sicuramente il pancotto, che non ho più in carta, ma è stato il principio di un nuovo percorso. Mi ha catapultato in una nuova dimensione: mantenevo intatto il gusto della cucina tradizionale abruzzese modificando le cotture nel rispetto dell’ingrediente. E’ il piatto che mi ha dato la possibilità di farmi conoscere: grazie al pancotto, nel 2003, fu scritto il primo articolo su di me».

Il piatto che non rifarebbe mai?
Ride Romito. «Le tagliatelle al profumo di macchia, senza dubbio: non so come, ma era un piatto che aveva grande successo, parlo di una quindicina di anni fa. Piatto assurdo, forse era un altro me a prepararlo: prendevo i funghi, li facevo ossidare, diventare neri, aggiungevo crema di pasta tartufata, un fondo di carne, prezzemolo e pomodorini… Non rinnego quel piatto, ma non mi ha mai rappresentato. Il mio modello di cucina è completamente diverso».

E cioè?
«Emozione della semplicità. Io provo a dare emozioni a chi assaggia la mia cucina: cerco di fare in modo che la complessità che c’è dietro la realizzazione di un piatto si risolva in semplicità, il piatto deve essere comprensibile nel rispetto della materia prima utilizzata. La complessità in cucina può essere vantaggiosa, la complicazione mai. Un ingrediente trasformato male è un ingrediente rovinato. Nei miei piatti ci sono ingredienti invisibili ma parte integrante della ricetta: chi mangia non li percepisce, ma se non ci fossero il piatto non sarebbe completo, mancherebbe l’equilibrio e l’emozione che tutte le parti insieme riescono a regalare».

Il nome di un suo piatto è stato addirittura inserito nella Treccani: Assoluto.
«Assoluto, di cipolla: non esisteva prima in gastronomia. Ho creato prima il piatto e poi gli ho dato il nome: un liquido che ha la stessa struttura e densità dell’acqua, quindi zero, ma non c’è acqua, quindi non è brodo. Assoluto, perché liquido al cento per cento costituito da cipolle».

Innovazione o tradizione?
«Entrambe o nessuna. In Italia si abusa sempre di questa distinzione. La mia cucina può essere sia tradizionale che innovativa, i due concetti si fondono in una cucina moderna, buona, importante che abbia un significato».

Anni fa, prima delle stelle, veniva definito “chef per caso” o “ragazzino della montagna”…
«Prima sì, ma ne è passato di tempo… Mi sono sempre considerato un’autodidatta perché ho iniziato senza una scuola. Ma dopo ho “studiato” molto, la mia cucina è una continua ricerca. Io funziono come una spugna ossessiva: non è una descrizione lusinghiera ma è calzante. Prendo l’ingrediente e lo giro da tutte le parti, lo studio a fondo. Per creare un piatto, prima di poterlo servire in tavola, possono passare anche mesi, talvolta più di un anno di esperimenti non riusciti, ingredienti non valorizzati, decine di persone impegnatissime a rendere unico quel piatto. Proviamo, assaggiamo. Non siamo convinti? Si butta tutto e si ricomincia. Il costo del piatto non è quello che si serve in tavola ma quello che c’è dietro: ricerca, tecnologia, studio. Per questo l’alta cucina ha un prezzo elevato, ma purtroppo il concetto non è comprensibile a tutti».

Ma tanta cucina in tv non aiuta?
«Grazie al boom mediatico, e ai molti programmi televisivi, le cose stanno cambiando. Certo si tratta di show e gli show hanno i loro lati negativi, perché l’audience è dato dalla sfida e non dal contenuto gastronomico, dalla ricerca, dalla materia prima, ma almeno se ne parla. Ed è bellissimo che nei ristoranti stellati, non accessibili a tutti, si vedano sempre più spesso giovani, che magari mettono da parte i loro risparmi per potersi permettere un’esperienza unica. Dieci anni fa nei tre stelle non vedevi mai ragazzi di 25 anni, ma solo clienti selezionati: un’apertura bellissima, alla quale anche noi stiamo dando un contributo, con la scuola e Spazio».

Quale il suo prossimo obiettivo?
«Migliorare sempre.
Anche dopo le tre stelle non mi sono mai fermato. E non mi fermerò mai».

 
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