Nunzia Truffle, la regina dei tartufi di New York è un’italiana

Nunzia Truffle, la regina dei tartufi di New York è un’italiana
di Luca Marfé
Domenica 9 Ottobre 2022, 20:15
7 Minuti di Lettura

NEW YORK - L’oro nero, o magari bianco. Pepite tra le mani di Nunzia Di Nardo e Giuseppe Varrati.

Lei originaria di Castel di Sangro, in America dal 2015, con un paio d’occhi di un azzurro quasi scollegato dalla realtà, per certi versi impossibile.

Lui 45 anni originario di Gamberale, ex operaio ed ex Arma dei Carabinieri, cercatore di tartufi da quando di anni ne aveva 13, un po’ per gioco, un po’ per guadagnarsi i primi soldi, un po’ perché il territorio di quell’Abruzzo lì si presta naturalmente a questo e a non troppo altro.

Qui a New York però, e più in generale qui negli Stati Uniti, entrambi sono conosciuti più semplicemente come “Nunzia Truffle”, i tartufi di Nunzia, appunto.

Una realtà che nasce col guizzo coraggioso di un’iniziativa personale e che diventa invece, in un lasso di tempo brevissimo, un’azienda strutturata e vincente, in rapida e costante espansione.

Un esempio di professionalità, di inventiva, già di perseveranza ma anche di simpatia, ennesima testimonianza del successo italiano nel mondo.


La regina dei tartufi di New York.
Ma da dove e come nasce questo “salto” americano?

«Io e Giuseppe siamo sempre stati affascinati dal mito degli Stati Uniti. Sempre», scandisce con forza. «Lui sognava gli Usa già da bambino, specie come sbocco per il tartufo, un tesoro così unico, così prezioso, di cui l’Abruzzo è pieno, non esiste mica solo il Piemonte!», sorride.
E continua: «Oggi abbiamo un’azienda agile, fondata sulle nostre immagini e immersa in una rete di pubbliche relazioni che spaziano dal piccolo ristoratore di quartiere, fino all’attico del Vip talmente in alto, talmente assurdo, che non si può neanche raccontare né ritrarre per questioni di privacy».

Tutto costruito da zero, insomma con l’esperienza.

«La prima volta, ho lasciato Nunzia qui che conosceva una sola persona, letteralmente una: il proprietario di casa», prende di colpo la parola Giuseppe.
«Il coraggio nel coraggio, poi, anche nella gestione dei figli, rimasti in Italia per i primi due anni. Nel barcamenarsi con la famiglia in generale, al fianco e contro a una città che non conosce pause né sconti di nessun genere».
Ha un tono di voce garbato, ma deciso. Di chi, evidentemente, si è speso tanto, in prima persona e in primissima linea.
«Non è stato facile niente. Agli occhi degli altri, anche dei tanti amici rimasti in Italia, c’è sempre la sensazione che uno abbia vinto la lotteria». E qui il tono di voce cambia ancora, più che arrabbiato, si fa dispiaciuto. «E invece noi due lontani, per tanti mesi l’anno, in particolare per il mio ruolo nella campagna acquisti.

Sacrifici, ritmi folli e rinunce. E orizzonti distanti e vasti, da inseguire sempre».

A proposito di orizzonti: qual è il vostro orizzonte, il vostro sogno?

«Noi abbiamo un…“problema”: non ci accontentiamo mai», riprende la parola lei.
«Obiettivi, e già obiettivi successivi», forte e gentile, come tutti gli abruzzesi.
«Non perché siamo assetati di chissà che, ma perché ci piace l’idea di migliorare sempre, di crescere qualitativamente. Spesso siamo tra virgolette in competizione tra noi, come fosse un gioco, una sorta di battaglia navale, fatta di numeri, di chi riesce a fare più e soprattutto meglio dell’altro, e questo stimola molto entrambi. Una certa “palestra” italiana aiuta, certo. Ci ha preparati, e involontariamente formati, tra mille difficoltà. Uno Stato, quello italiano appunto, che ci tartassa talmente tanto che poi alla fine qui, liberi di fare, siamo esplosi».

Per quanto questa sia la terra del business, non solo business, però.

«Il nostro obiettivo parallelo è culturale. Il prodotto, sì. Ma proprio il concetto di eccellenza italiana e anche di popolo abruzzese». Che non è “soltanto” forte e gentile, insomma, «Né tantomeno “capatosta” e basta. C’è in gioco un’intera schiera di persone colte, erudite, professionali. Un’agricoltura di livello. Purtroppo ogni volta che si cerca di promuovere la Regione Abruzzo viene colto sempre quel lato lato folkloristico che ci vorrebbe tutti un po’ contadini e approssimativi. Ci sono invece delle realtà straordinarie che nulla hanno da invidiare al Nord», afferma con tono umile, ma fiero.

Ma tornando al business…

«Sono sincera: l’obiettivo economico-aziendale è ambiziosissimo. Non solo Usa: ma già Francia, Germania, Svizzera, Polonia ed Europa in generale. E perché no, fino in Oriente, dove c’è un’effervescenza di mercati interessantissimi».

C’è anche l’Italia, però, giusto? Non solo coi suoi difetti di burocrazia e tasse, ma anche come laboratorio del vostro…“oro”.

«Sì, certo: c’è Villa Santa Maria. A Gamberale abbiamo il nostro primo quartier generale, ma Villa Santa Maria è uno stabilimento assai più grande e rappresenta un passo completamente nuovo, forse lungo, ma non troppo. Giusto. Siamo pronti per diventare grandi. Un sito abbandonato, rivalutato, ora al centro di una ristrutturazione  che è un’autentica ricostruzione. Peraltro proprio vicino alla scuola alberghiera di Villa Santa Maria di cui Giuseppe stesso è stato allievo».
Ostenta il suo amore, anche professionale.
«Lui campione di salse e dedito all’acquisto cercatore per cercatore, azienda per azienda».
Si sofferma poi su questa curiosa figura:
«Il cercatore è anche una persona molto particolare, gelosa del suo bottino, ancor di più dei suoi posti. Una relazione stretta e difficile da coltivare, con Giuseppe che vanta una rete fitta, di circa 200 o 300 persone!».

È entusiasta, è il lavoro di tutta una vita, ma è anche e soprattutto passione.

«Cercare e trovare tartufi significa tante cose. Significa un cane di razza, ben addestrato, nonché una relazione particolare con il padrone. Spesso il cane arriva in punti dove l’uomo non può arrivare, e allora che fa? Scava da solo. Insomma, un lavoro di simbiosi che sfocia nel ritrovamento dei tesori preziosi», sembra immersa in un romanzo, il suo. E ha sempre gli occhi che le brillano.

Poi riparte forte su Manhattan e dintorni.

«New York è stata la grande fortuna, la grande intuizione. Ed è stata una grande fortuna qui a New York conoscere le persone giuste che sono venute poi, che mi hanno teso una mano, che mi hanno guidata in questa giungla di grattacieli in cui nessuno guarda in faccia a nessuno. Tanti dipendenti in gamba, ad esempio. Oramai famiglia. Sempre gli stessi, la nostra forza», e qui quasi si commuove.
«Certo, la pandemia l’ha cambiata, ma noi intanto siamo rimasti, siamo rimasti vivi e vegeti, e pure più forti di prima. Per altri versi, è brutto a dirsi, ma la pandemia ha spazzato via pure un bel po’ di rami secchi. Ma noi ci concentriamo su di noi: siamo partiti da zero, la pandemia ci ha riportati a zero, ma non avevamo paura più, forti dell’esperienza della partenza, appunto. E New York riparte forte, il business è comunque in crescita, anche rispetto anche al 2019: +35%. Dati incoraggianti che danno ragione a noi. Non che non abbiamo mai mandato nessuno in unemployement (disoccupazione, ndr) perché abbiamo sempre pensato che la vita sarebbe ripartita e, prima ancora, abbiamo prestato massima attenzione al destino dei dipendenti che non potevamo in nessun caso lasciare per strada, con le loro famiglie al seguito. No, mai. Ce l’abbiamo fatta, ripeto: abbiamo avuto ragione noi».


Altro che fine, dunque: che inizio!

«Un ulteriore nuovo inizio, sì. Anche perché, volendo scendere ancor di più nel dettaglio, le nostre ultime scelte hanno creato riconoscenza, sì nei dipendenti, ma anche tra i clienti, che per esempio non sono mai stati vincolati a ordini o a quantità minime, eccetera. Quindi tutta una rete che ci ha consentito, non di guadagnare e anzi magari addirittura di perdere per un paio d’anni, ma di preservare stima e amicizia, e di conseguenza il futuro della nostra azienda.
Futuro che è adesso, di nuovo vivo, e assolutamente vegeto».

L’orizzonte americano è vasto e le radici italiane sono fortissime.

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