Lascia il lavoro in banca e diventa pizzaiolo: Pizza e Vesuvio’s, il sogno napoletano di Pasquale Di Maio

Lascia il lavoro in banca e diventa pizzaiolo: Pizza e Vesuvio’s, il sogno napoletano di Pasquale Di Maio
di Luca Marfé
Domenica 7 Febbraio 2021, 16:34 - Ultimo agg. 10 Febbraio, 16:20
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«Ho stretto al petto sogni che mai avrei pensato di poter realizzare».

La forza evocatrice di queste parole vale tutta la chiacchierata con Pasquale Di Maio.

Originario di Posillipo, si trasferisce a Mondragone alla fine degli anni ’80, per poi prendere e mollare tutto: una quindicina d’anni fa, Pasquale lascia la Campania, lascia il suo lavoro da impiegato in banca e parte per il freddo Minnesota, più precisamente per Minneapolis.

Una sorta di rivoluzione: è così che inizia la storia di uno chef-pizzaiolo che ha fatto dell’adattamento una coraggiosa virtù e della cucina una sconfinata passione. Come tanti prima e dopo e di lui, ha scommesso sul Sogno Americano: ciò che lo rende speciale, però, è l’averlo realizzato. Con un pizzico di incoscienza, sempre sorridente, disponibile e pronto nei confronti delle opportunità del Paese principe delle opportunità. Sempre sognatore, appunto.

Rinunciare a un contratto a tempo indeterminato in banca per un salto del genere. Come lo hai deciso e perché proprio Minneapolis?

«Avevo qui uno zio che a sua volta era titolare di due ristoranti. Prima l’idea di una vacanza, poi una ragazza che sarebbe diventata mia moglie, poi ancora la spola Stati Uniti e Italia. E allora basta: mi sono messo in testa di lasciare una carriera bancaria, peraltro già avviata su binari importanti, e di trasferirmi, anche se soltanto momentaneamente, proprio a Minneapolis».

Gli brillano gli occhi, prosegue tra ricordi ed emozioni.

«All’inizio, in realtà, la mia idea era ritornare o comunque restare, ma in uno Stato più caldo. Ad esempio, ho avuto la fortuna di lavorare anche in California per circa un anno, ma poi il richiamo di questo posto e di tanti motivi personali mi hanno riportato qui, nell’insolito ma affascinante Minnesota. Così ho deciso di rimanerci, ed eccomi qui, ancora adesso. In un primo momento, lavoravo come cuoco presso alcuni locali, fino a quando, oramai più di dieci anni fa, mi sono messo in proprio e ho aperto Vesuvio’s, un servizio di catering. Il nome dice tutto, c’è dentro tutta la mia terra, tutta la nostra storia di napoletani nel mondo».

Certo, dalle mura di una banca in giacca e cravatta, alla divisa e al lungo cappello di uno chef: una roba da film. Un colpo di scena che hai inventato in America o un qualcosa che in qualche modo immaginavi già da ragazzo?

«La mia famiglia aveva dei ristoranti a Napoli e, come tanti giovani, andavo a lavorare dai miei zii per riempire le tasche dei “soldarelli” per le mie giornate. Piccole cose, ma assai educative e già tesoro di esperienza. È lì che mi sono mescolato con l’arte della cucina, facendola un po’ mia, addirittura facendola fruttare poi. Quando sono arrivato negli Stati Uniti, mio zio mi ha portato a lavorare con lui e, sfruttando quella mia piccola grande esperienza, è scoppiata di colpo in me la grande passione per questo mio mestiere. Lavorando per grandi catene di alberghi, ho imparato anche lo stile della cucina americana, così ho messo insieme cucina americana e cucina italiana, nel tentativo costante di tirare fuori il meglio dell’una e dell’altra. E poi, rullo di tamburi... - sorride - Sapevo fare la pizza».



Pizza napoletana e cucina italiana, l’accoppiata vincente, persino perfetta. Ma, classica domanda da un milione di dollari: gli americani apprezzano davvero la cucina italiana?

«“Gli americani” significa tante cose. In altre parole, dipende da quali americani, dipende dallo Stato. Nel Minnesota c’era una vasta comunità di italiani che adesso non è più così numerosa. Qui la cucina italiana viene apprezzata, ma a dire il vero anche noi ci siamo “americanizzati” nello stile e nelle ricette. Qualche volta, tenetevi forte, mi chiedono anche l' "hawaiana”, la pizza con l’ananas».

Scoppia in una risata fragorosa, ma poi prova a tornare serio e ci ragiona su.

«Inizialmente avevo preso una posizione netta decidendo di non farla, poi alcuni clienti mi hanno detto che per loro quel tipo di pizza era top, quasi imprescindibile. Pensate che nel ‘98, un quarto - un quarto! - delle richieste che mi venivano fatte era proprio costituito dall'"hawaiana”. Da quel momento, per quanto possa far storcere il naso ai fondamentalisti della pizza, ho capito che dovevo iniziare ad adeguarmi nella direzione del business, magari provando a migliorare certe ricette e certi gusti con l’aiuto di alcuni stratagemmi culinari».



Coraggio, adattamento a stelle e strisce e inventiva. Fino a Vesuvio’s.



«Tutto è nato per caso. Feci una festa nel mio giardino, comprai un piccolo forno e dopo mi venne richiesto di cucinare ad un battesimo. Io ad un battesimo? Scherzando, risposi che al massimo avrei potuto fare quattro pizze. Da lì capii che forse, mettendo su un sito internet, qualcun altro avrebbe potuto chiamarmi. Il nome è evocativo del nostro simbolo, Vesuvio’s nasce come servizio di catering, ma diventa anche take out, asporto. Ovviamente a causa del Covid gli eventi sono crollati e così stiamo cercando di reinventarci, di farcela e ce la faremo. Pizza napoletana, ma non solo. Due anni fa, ho acquistato un’azienda che si occupa di barbecue, la ChuckWagon, e il delivery offrirà proprio questi servizi: pizza e barbecue, la “combo” perfetta per gli amici americani. Mi ritrovo oggi proprietario di tre catering, sto aprendo una nuova pizzeria che vedrà la luce in primavera e, nonostante un 2020 apocalittico, vantiamo numeri, bilancio e clienti Vip da capogiro. Con tutto il rispetto: altro che il mio vecchio lavoro in banca!».

Sorride di soddisfazione in un Paese in cui avere successo non è una colpa da espiare.
Non solo artigiano e artista, inoltre. Perché i giornali locali ti raccontano anche come pizzaiolo “istituzionale”, con indosso un ruolo di rappresentanza.

«Non sono ancora troppo abituato a vedere il mio faccione sulle pagine dei giornali e arrossisco sempre un po’. Ma, sì: attualmente sono il vicepresidente dell’Associazione PGM, “Pizzaioli in Giro per il Mondo”. Un grande onore per me e per noi che nel corso degli ultimi anni abbiamo inventato ben due crociere del pizzaiolo, una nell’Adriatico e l’altra nel Mediterraneo, a bordo delle quali abbiamo tenuto corsi e promosso scuole con centinaia e centinaia di colleghi pizzaioli. Restiamo umili, con i piedi ben saldi per terra, ma ci consideriamo un’avanguardia e proprio pochi giorni fa abbiamo fondato l’Accademia PGM, che è già operativa anche online con tanto di video lezioni e tutorial.

Stiamo girando, di persona e sul web, coi maestri della panificazione e della pizza. Per il momento, li osservo da lontano e mi occupo di amministrazione e di organizzazione. Con uno sguardo al futuro, invece, non vedo l’ora di essere accanto a ciascuno di loro. Più in generale, come tutti immagino, di tornare a viaggiare».



Una battuta per concludere, da sognatore a sognatori: ai giovani che vivono in Italia e sognano di fare successo all’estero, cosa consigli?

«Molti mi dicono che sono stato fortunato e io stesso mi considero così e ne sono ogni giorno infinitamente grato. Come da proverbio, però, credo che ognuno sia il vero grande artefice della propria fortuna. Ho cambiato tanti lavori, ho cercato di farli tutti al meglio, ho creduto sempre.
Sento di tantissimi ragazzi che vogliono lasciare un’Italia purtroppo malconcia per andare all’estero. Ragazzi che tuttavia, alle volte, non riescono a superare la sfida della lontananza e dell’adattamento.
Il consiglio è semplice ed è questo: seguite la vostra passione, rendete quella passione un lavoro.
Fai qualcosa che non ti piace, che non ti appassiona, appunto?
Cambia!

Ci si preoccupa dei soldi, e a ragione perché dei soldi bisogna tenerne conto, eccome. Ma i soldi non sono tutto né sono la soluzione. L’importante è amare ciò che fai: unica vera grande vittoria. Il resto è una gigantesca conseguenza.
Ci vuole il coraggio: di impegnarsi, ma prima ancora di cambiare, di cambiare tutto. Ci vuole un guizzo di incoscienza, quale che sia il proprio perimetro. Che sia quello di un lavoro in banca o quello della famiglia o quello della casa di sempre. Per lasciare, per ricominciare, per provarci, per realizzarsi, per essere felici».

(Ha collaborato Marco Cutillo)

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