Sara Cuticchio: «Io, psicoterapeuta che cura i bambini con i pupi siciliani “di famiglia”»

Sara Cuticchio
Sara Cuticchio
di Totò Rizzo
Giovedì 13 Gennaio 2022, 17:00 - Ultimo agg. 14 Gennaio, 21:01
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Lei assicura che non era affatto un “piano B”. Certo, con un padre che è il puparo più famoso al mondo (rivoluzionario innovatore della tradizione popolare, spettacoli nei cinque Continenti, diretto da registi di fama – da Ronconi in teatro a Tornatore al cinema – seminari di narrazione nelle università italiane e straniere), era difficile scampare al destino di “figlia d’arte”.

C’era, in verità, una mezza idea di iscriversi ai corsi di regia del Centro Sperimentale di Cinematografia, anche se le piacevano le tournée di quella famiglia-carro di Tespi che le facevano conoscere gente e Paesi nuovi ma, galeotta una docente di Filosofia al liceo, s’innamorò della psicologia e così, oggi, Sara Cuticchio, 35 anni, figlia di Mimmo, fa la psicologa e la psicoterapeuta a Padova, città dove si trasferì da Palermo, diciottenne, per studiare. «Complicato, in una famiglia come la mia, artisti da più generazioni, non “seguire le orme”. Ma ero arciconvinta della mia scelta». Solo che, forse il Dna o forse le radici, qualcosa riaffiora sempre e la dottoressa Sara Cuticchio oggi cura a Padova i suoi piccoli pazienti con i pupi.

La possiamo chiamare pupo-terapia?

«Ma sì, i pupi diventano terapeutici, sono lo strumento di un percorso a volte anche lungo, un oggetto che investe affettivamente i bambini (dai 5 agli 11 anni, ndr.) che li costruiscono anche, ognuno il proprio, in una terapia di gruppo che io preferisco, se possibile, a quella individuale dove c’è naturalmente maggiore pressione, mentre la collettiva offre uno scambio emozionale, un confronto di esperienze».

I pupi sono quelli dell’ “opra dei pupi”, dei celebri teatrini siciliani?

«Sono ovviamente pupi particolari, di formato piccolo, li ha realizzati apposta Salvo Bumbello, uno degli ultimi artigiani di scuola palermitana, con materiale di riciclo, facile e sicuro da manipolare.

I bambini poi costruiscono i loro – che possono essere anche burattini o pupazzi – con carta e creta».

Che personaggi inventano a quell’età?

«Il pupo nasce un po’ per volta, dalla storia che ognuno di loro racconta, si modifica, cambia nel corso della stessa terapia. Il bambino vi proietta parti di sé: reali, che attengono alla sua sfera personale, o inconscie, che svelano il suo immaginario. Ricrea magari una persona del suo quotidiano – che può essere il papà, la mamma, un nonno, un fratello – intorno al suo mondo. Un oggetto carico di significati, dunque, il pupo, che non si trasforma mai in un feticcio ma che consente loro di giocare con la propria identità e con quella degli altri. E soprattutto gli scrolla di dosso “il falso sé”».

Ovvero?

«Ogni bambino ha un “falso sé”: gli serve per essere accettato, accolto, amato – in casa e fuori – dal mondo degli adulti. Creando il suo pupo, rivendica la propria identità, è se stesso, non più una figura subalterna alle aspettative dei “grandi”. Uno spostamento di ruolo, un po’ come nello psicodramma per le persone mature».

Che cosa si può capire del bambino mentre sta creando un pupo?

«La prima cosa è il suo rapporto con il proprio corpo, se ci sono elementi di disarmonia, di non-accettazione di sé che vengono riflessi nel manufatto. Poi, una volta costruito il pupo, a seconda di come lo muove, lo fa camminare, agire, entra in gioco la sfera della motricità, la funzione motoria è fondamentale nella comunicazione del bambino, nella sua relazione col mondo».

I vantaggi sul piano terapeutico?

«Il processo di cura in gruppo è più veloce di quello individuale che incontra sempre maggiori resistenze, anche se io ho ideato e arredato il mio studio in modo tale che qualche bambino, finita la seduta, non vorrebbe più andar via. Ma in gruppo c’è interscambio di storie, maggiore risonanza emotiva, regole che vanno rispettate insieme, conflitti interpersonali che esplodono più facilmente ma più facilmente vengono ricomposti. Infine è anche una terapia più economica per le famiglie».

La pupo-terapia ha arginato meglio gli effetti di due anni di pandemia?

«Purtroppo è una situazione traumatica di fronte alla quale anche i pupi si sono trovati... impreparati. Un po’ come i genitori nei confronti dei bambini. Sono stati i grandi, in questi due anni di convivenza con l'emergenza Covid,  ad aver subito i maggiori disagi nel momento in cui i figli non hanno più potuto canalizzare la loro energia nelle attività alternative alla scuola, dal gioco allo sport. I piccoli hanno retto meglio la botta. Addirittura ribaltando spesso i ruoli, suggerendo loro, agli adulti, come comportarsi».

La psicoterapeuta Sara dà anche lei suggerimenti al papà artista Mimmo?

«Per carità, gli artisti hanno personalità complesse, non vorrei creare conflitti. Però, ogni volta che torno a Palermo, discutiamo tanto: lui mi dà consigli sul piano immaginifico, creativo, io gli parlo dei miei piccoli pazienti e sospetto che lui prenda nota mentalmente per i suoi spettacoli, specie per quando si trova davanti una platea di bambini».

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