Signorini: «Dal mio gatto ho imparato molto, non saprei scrivere senza di lui»

Signorini: «Dal mio gatto ho imparato molto, non saprei scrivere senza di lui»
di Giovanni Chianelli
Martedì 17 Luglio 2018, 12:02
4 Minuti di Lettura
«Dal mio gatto ho imparato molto. Ad esempio, a non umanizzare gli animali». Alfonso Signorini compare spesso con il suo Teo in braccio. È un bellissimo norvegese di sei anni e gli fa compagnia persino nell'immagine con cui accompagna i suoi editoriali su «Chi». Come durante le prove per la «Boheme» di cui firma la regia: debutterà il 26 luglio al Festival pucciniano a Torre del Lago. Sono inseparabili. «Nel rispetto reciproco delle nostre entità. Sono lontano da chi fa dei proprio cuccioli una mania e mi sembra la migliore maniera di amarlo».
Direttore, presentiamo il suo gatto.

«Teo, sei anni il prossimo 15 settembre. Norvegese. Bello e non lo dico solo io. Intelligente e possono dirlo i miei lettori. Si, firma con me i miei pezzi. Mi spiego: da qualche anno, nella foto con cui accompagno gli editoriali di Chi, c'è lui. È un'immagine scattata quando era un cucciolo e l'ho voluta in pagina perché mi rappresenta. L'editoriale è la parte del giornale cui tengo di più e che spesso non dà indicazioni sul numero in questione. È una finestra sulla mia vita, un dialogo intimo coi miei lettori. Non poteva non esserci Teo che, ormai, è una celebrità».

Quando vi siete incontrati?
«La storia del nostro incontro è tanto semplice quanto inscritta nel caso, e io non sono uno di quelli che ci crede molto. Una mattina facevo colazione e mi sono chiesto come sarebbe stato avere un animale in casa. Pensavo ci stesse bene così, un po' come immagine letteraria. Un cane no: non avevo mai avuto un animale e sentivo che un cane sarebbe stato più impegnativo. Così pensai a un gatto. Apro google e scrivo, banalmente, cerco gatto. Appare Teo. Mi dico: è lui, deve venire a stare da me».

E dopo?
«E dopo detto fatto: contatto subito un allevatore di Aosta che aveva pubblicato quella foto e nel giro di dieci giorni ho Teo che gira per casa, così come sognavo. Ma non sono subito rose e fiori».

Perché?
«Perché io sono un orso selvatico e un solitario. Non sopporto la convivenza con nessuno. Perciò i primi giorni si rivelarono drammatici. Ma ormai avevo scelto e mi sentivo responsabile per lui, perciò passammo alla fase di reciproco annusamento. Poi una sera cambiò tutto: mentre leggevo, seduto sul divano, ho sentito un colpo su un braccio. Era lui, mi cercava. La mia reazione fu accoglierlo con dolcezza. Da quel momento è scoppiato l'affetto».

Diceva che prima non era un appassionato di animali.
«Per nulla, mai avuti. Perciò con Teo è nata un'altra fase della mia vita e un altro Alfonso. Però sono rimasto sano. Non sono di quelli che umanizza o divinizza gli animali. Cerco di rispettare la sua ferinità ed essendo un gatto sarebbe assurdo il contrario. Mi affascina il suo non essere davvero addomesticabile. La nostra è un'amicizia. Lui ricambia questo mio rispetto con una grande fedeltà».

Di solito è un termine che si combina con i cani.
«Sfatiamo qualche luogo comune: i gatti sanno essere molto fedeli. E ti danno una complicità mai invasiva. In tanti anni, quando torno a casa, non è mai capitato che non mi stesse aspettando. E vive al mio ritmo, capita spesso che mentre cammino nel mio appartamento inciampo su lui che mi segue e mi conforta. Come un'ombra. Ecco: lui è casa. E a volte è un orologio.

Un orologio?
«Racconto l'aneddoto: io tiro spesso tardi la notte, per leggere e scrivere. A volte non mi rendo conto del tempo che passa e capita che faccia anche l'alba. Una notte, saranno state le quattro, compare Teo e mi guarda. Io lo noto appena, concentrato come ero sui testi. A un certo punto si arrampica sul comodino dove c'è l'abat-jour: Teo spegne la luce. Resto folgorato, mi stava dicendo che si era fatto tardi».

Cosa significa stare con un gatto?
«Significa imparare. Assorbire le sue caratteristiche per conviverci bene. Con lui ho imparato l'attesa, grazie a lui ho acquisito pazienza. A volte mi viene voglia di prenderlo in braccia ma decide lui quando. E io lo aspetto. Ho imparato molto da Teo».

Anche nel lavoro?
«Un giornalista può apprendere, da un gatto, soprattutto tre cose: può imparare a diventare attento a fare entrare nella propria vita le cose più belle. L'eleganza nello scrivere, tentando invano di imitare la sua. E poi la calma con cui affronta la giornata è una bella lezione per noi che, per via di questo mestiere, siamo spesso stressati. Guardo lui e dico: calma. Serenità».

Nel suo ultimo libro sulla vita di Chopin c'è una scena ambientata in una stalla. L'osservazione degli animali è uno spunto per chi scrive?
«Certo. Anche una metafora. Quella scena, in cui descrivo una monta tra due cavalli, è il simbolo dello shock che subisce la madre del protagonista, abbottonata e bigotta signorina di città, immersa in un ambiente rurale, davanti alla forza della natura. Perciò dico che gli animali vanno ammirati nel loro essere selvatici e vanno apprezzati per ciò che trasmettono».
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