Vittorio, sette anni tra i profughi d'Istria: «Così riscrivo i segni di Napoli»

Vittorio, sette anni tra i profughi d'Istria: «Così riscrivo i segni di Napoli»
di Maria Pirro
Lunedì 31 Maggio 2021, 11:00
4 Minuti di Lettura

Porta i segni di un'infanzia difficile vissuta a Labin, tra i profughi d'Istria, nei campi forzati e sui carri di bestiame, ma non ne fa un fardello di tristezza. Perché ha lasciato da un pezzo la costa jugoslava, oggi croata, fra Fiume e Pola: suo padre era un ufficiale di dogana.

Dal 1942 al 1949, per sette anni, anche a guerra finita, tutta la sua famiglia ha vissuto tra privazioni, alloggi provvisori, fino alla fuga in barcone e al «primo asilo», il rifugio a casa della nonna, nel rione Sanità. E quell'esperienza, di frontiera, è diventata la sua cifra. Il suo codice per capire il dopo e stare al mondo. «A Napoli sono rinato», sintetizza Vittorio Bongiorno, che oggi non è più il bambino dai calzoncini corti sbarcato in città. Ha settantanove anni, un figlio a Dakar e assomiglia a un chiodo: sottile e saldo, anzi saldissimo in via Bonito, a San Martino, dove abita. San Gregorio Armeno è invece il suo punto di riferimento per lavoro.

Bongiorno fa il grafico, l'illustratore e il designer di brand e riviste, da Vogue per Sachs a Cenci e a Karl Lagerfeld.

Direttore artistico di Nuova Fotografia e Napoli Guide, il primo logo che mostra con orgoglio è quello della Fiera della casa, d'origine fascista, rivisitato nel 1964.

Con la A predominante e ripetuta, tracciata in rosso.

«Per realizzare un'immagine di successo, è fondamentale comprendere che cosa racchiude ogni simbolo. In questo caso c'è il focolare, e mi viene in mente anche una poltrona», sorride.

Parlando di sfogliata e sfogliatella al tavolino di un bar in piazza Salvo d'Acquisto ex piazza Carità va a ritroso, ne ripercorre l'etimologia: viaggia tra le insegne, e nel tempo. Afferra la memoria della gente e dei luoghi, questa volta è la sua. «Di posti ne ho visti tanti grazie alla conoscenza delle lingue sviluppata da solo e con Arturo Pellis, insegnante di tedesco al liceo scientifico Cuoco, e poi all'Orientale. Sono stato a Stoccolma per specializzarmi. E a Londra ho ritoccato leggermente anche un album dei Beatles», dice sottovoce.

Poi, Bongiorno presenta un'altra innovazione scoperta come pioniere, girovagando da ragazzo: la stampa dei fumetti, quella a colori con i puntini.

«Sapere utilizzare tecnologie innovative mi ha aiutato a ottenere incarichi, una volta rientrato a Napoli e deciso a non ripartire più perché sposato. Qui ho continuato a imparare con maestri del calibro di Vittorio Russo e Carlo Mazzacurati, e a leggere tanto».

Decisivo è anche il suo tendere una mano verso l'altro, nel tentativo di instaurare una comunicazione non banale, più emotiva, piacevole e sincera.

Ogni segno, dunque, si trasforma in valore, resta impresso: le forme assumono un significato che tiene insieme le parole tra loro, la sintassi raffinata, e gli spazi completano il tutto, come i silenzi una partitura di Mozart. La simmetria rientra nella ricerca del bello.

Bongiorno sostiene che non è necessario avere il tocco d'artista, ma quanto è dolce l'acquerello di un'oca e il volto che ha realizzato per la copertina di «Luigi Compagnone. Quasi un dizionario».

Sua anche la «Signora con cappello» fino a qualche mese fa a installata davanti al Gambrinus, all'angolo di via Chiaia. E pannelli, poster, specchi e segnaletiche a bordo delle navi.

E il cartellone illustrato della tombola, nel 1981. La tombola napoletana, tradotta anche in inglese e rivolta soprattutto agli italiani nel mondo, evocando lo stile «boite di pomodoro».

Tornando dal centro storico al Vomero, Bongiorno prende la funicolare e si mette davanti per guardare fuori. Ma, prima, sul foglio traccia una linea, tra passeggeri che salgono e quelli che scendono da porte opposte. Senza conoscersi, senza parlarsi. Quanti mondi così vicini e lontani. Immaginati, ritratti. Fermati nella mente di un uomo. È la sua (unica) linea di confine. 

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