La sfida dell'enologo ​Vittorio Festa: «Così restituisco il vino alla natura dell’uomo»

La sfida dell'enologo Vittorio Festa: «Così restituisco il vino alla natura dell’uomo»
Sabato 7 Dicembre 2019, 17:30
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Il vino da sempre ha insita una missione: raccontare all’uomo i dogmi della natura e del tempo. E l’uomo nel vino ricerca le radici di una conoscenza antica che va dalla scoperta del bello alla voglia di svago spensierato. Giusto nel mezzo di questo percorso si svolge il lavoro dell’enologia, scienza esatta che trasforma il mistero della natura e dell’uva nel prodotto culturale più amato al mondo, il vino. Vittorio Festa, enologo di professione, è l’espressione di quanto passione, ricerca e approfondimento costante siano alla base della nascita e della produzione del vino che fa contenti tutti, intellettuali, esperti o semplici amatori.

Figlio d’arte, inizia il suo percorso già da giovanissimo seguendo il padre nelle prime cantine sociali che iniziarono a vedere la luce in Abruzzo negli anni ’60. Da quella giovinezza piena di passione il passo decisivo fu l’approdo agli studi tecnici di enologia. Oggi segue diverse produzioni che lo vedono protagonista nel Centro-Sud tra Abruzzo, Campania, Molise, Marche e Calabria. Insignito di diversi premi, l’ultimo di questi conferitogli da Food&Travel lo vede spiccare tra i tre migliori enologi dell’anno 2018. Vittorio Festa resta umile e in sordina ci racconta anche del premio conferitogli dalla Germania come migliore enologo.



Vittorio, qual è lo stile che identifica il tuo lavoro da enologo?
«L’unico che posso seguire, perché mi identifica prima come persona e poi come enologo: il rispetto per la natura e di conseguenza del vino; il mio intento è quello di non invadere questa realtà e di rispettarla fino in fondo, cosa che per me significa seguire la vocazione del territorio e delle sue viti senza interferire».

A proposito di territorio, quello campano per antonomasia è particolarmente vocato alla viticoltura. Cosa ti emoziona di più di questo terroir?
«La Campania è la regione che ha più viti autoctone in Italia, quindi è la più ricca in biodiversità; questi fattori insieme alla sensibilità e alla vocazione dei produttori che seguo, sono la base per un lavoro di eccellenza e di alta qualità. La cosa che mi colpisce di più dei vitigni campani è la loro predisposizione alla longevità. Il Sannio ad esempio si offre con le sue uve a uno spettacolare dialogo con il tempo che nel calice significa appunto grande longevità, e, posso affermarlo con certezza, alcuni bianchi sono degni concorrenti di vini importanti italiani e, perché no, francesi».

Qual è il vitigno che ti ha dato più soddisfazione e quale quello più tormento?
«Il piedirosso e la camaiola mi hanno dato grandi soddisfazioni e sorprese. Credo che la sfida oggi possa essere il territorio casertano».

Oggi tema bollente e necessario è la sostenibilità. Cosa significa per te?
«È un qualcosa di molto complesso che racchiude non solo l’aspetto tecnico e quindi la conduzione di un vigneto o la gestione in cantina, ma è un concetto più ampio che oltre l’etica e la legalità dovrebbe allargarsi anche ai rapporti con ogni attore che entra a far parte della produzione. E poi credo che questa sia la forza che possa portare a quella grande qualità che tutti desideriamo, sia da bevitori che da produttori».

Dalle Marche alla Calabria, dall’Abruzzo alla Campania. Come rispondono le cantine che segui a questo ideale?
«La ricezione è arrivata e va oltre la produzione biologica o biodinamica. Essere per la sostenibilità anche qui sta diventando un vero stile di vita che supera quello tecnico».

Qual è secondo te il segreto per il successo di un’azienda vitivinicola a prescindere da Nord, Centro e Sud?
«La coerenza nell’applicare prima principi e valori attraverso la tradizione che racconta la terra e la natura e poi nell’applicare sapientemente la tecnologia».

Quali sono in progetti per questo 2020 che si sta affacciando?
«Nei progetti futuri rientra la stesura di un libro che parte dagli appunti e dalle ricerche condotte già da mio padre ben 25 anni fa sull’indice della morbidezza dei vini, un lavoro che vuole partire dal presupposto oggettivo che la piacevolezza del vino può identificarsi attraverso parametri scientifici e chimici, un lavoro fatto, però, non solo di stime e numeri, ma che vuole raccontare una esperienza e una vita vissuta per l’enologia».

Qual è il tuo successo più grande?
«Quello che ancora deve arrivare».
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