Cuocolo, camorra sotto scacco
anche con un falso pentito

Cuocolo, camorra sotto scacco anche con un falso pentito
di ​Isaia Sales
Domenica 19 Marzo 2017, 10:17 - Ultimo agg. 18:02
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Il processo Cuocolo si svolse a Viterbo tra il 1911 e il 1912. Era stato spostato in quella cittadina per «legittima suspicione». Cinque anni prima, il 6 giugno 1906, erano stati ammazzati Gennaro Cuocolo, un basista di furti di appartamenti, il cui corpo era stato rinvenuto sulla spiaggia di Torre del Greco, e sua moglie Maria Cutinelli, un'ex prostituta accoltellata a morte della sua casa di via Nardones nel centro di Napoli. E le indagini successive avevano dato adito ad uno scontro durissimo tra Polizia e Carabinieri. Fu un processo che ha fatto storia, perché si è trattato del primo maxi-processo a dei criminali nella storia giudiziaria italiana dopo quelli sommari contro i briganti, e perché per la prima volta un pentito accusava e faceva condannare i principali camorristi della città, a partire dal «capintesta» Enrico Alfano, e addirittura un prete, il cappellano del cimitero di Poggioreale, don Ciro Vittozzi, legato da comparaggio al capo camorra.

Un processo che ebbe una grande eco sulla stampa nazionale e locale, anzi lo si può definire un primo esempio di processo mediatico. «Il Mattino» di Edoardo Scarfoglio e di Matilde Serao organizzò nella Galleria Umberto (accanto alla sede del giornale) la proiezione serale delle udienze con grande partecipazione popolare. All'epoca «Il Mattino» vendeva 70.000 copie ed era il quarto in Italia per numero di lettori (dietro il «Corriere della Sera», «La Tribuna» e «Il Secolo») e aveva ricevuto risorse cospicue per dotarsi di tutti i mezzi moderni, tra cui anche quelli necessari per registrare le fasi più importanti del processo e proiettarle di sera a Napoli. Successivamente Ernesto Serao e Ferdinando Russo raccoglieranno in volume le inchieste del giornale sul caso. Nelle immagini dell'epoca si vedono sfilare dietro le sbarre camorristi eleganti, impomatati, che non si volevano confondere con la plebe da cui provenivano. Luigi Zampa nel 1952 ne trasse un film di grande successo, intitolato appunto «Processo alla città», con protagonisti Amedeo Nazzari e Silvana Pampanini. Insomma un processo che sgretolò l'organizzazione camorristica, mettendo fuori gioco i suoi principali capi. Per quasi cinquant'anni la camorra non si riprese dallo sgretolamento che quel processo causò nelle sue file. Indubbiamente funzionò la repressione giudiziaria e penale. E tale repressione fu accompagnata da un'opinione pubblica largamente colpevolista (supportata dal «Mattino» e dagli altri giornali locali e nazionali) e da uno schieramento politico ampio che comprendeva anche i socialisti napoletani, (oppositori in consiglio comunale e in Parlamento) convinti di avere le prove di un rapporto organico del prefetto Tommaso Tittoni (che sarà poi ministro degli esteri) con la camorra. Nel 1904 nel collegio di Napoli-Vicaria era stato sconfitto e non rieletto l'unico deputato socialista del Mezzogiorno, Ettore Ciccotti, grazie ad una mobilitazione straordinaria del prefetto e dei capi-camorra a favore del candidato giolittiano. Ma il processo era tutto basato su false accuse. Alfano e compagnia erano degli spietati assassini ma quei due delitti non li avevano commessi, le prove erano state costruite a tavolino dal capitano dei carabinieri Carlo Fabroni, intenzionato con tutti i mezzi (anche manipolando le prove) a incastrare i vertici della camorra napoletana dell'epoca e a screditare il lavoro della Questura e della Polizia, i cui vertici erano ritenuti troppo acquiescenti con i vertici della «onorata società». E si servì del primo falso pentito della storia giudiziaria italiana, Gennaro Abbatemaggio. Erano venute in tal senso delle sollecitazioni da personaggi imparentati con i Savoia, in particolare dal duca d'Aosta Emanuele Filiberto, che viveva nella reggia di Capodimonte, e che mal sopportava che i camorristi si erano infiltrati anche nei circoli esclusivi della buona società dell'epoca.

Nel 1927 Abbatemaggio confessò l'imbroglio inviando una lettera all'avvocato Rocco Salomone, che aveva difeso l'Alfano e che da tempo si batteva per riaprire il processo, ma il regime fascista non volle riaprirlo anche se concesse la grazia ai camorristi ingiustamente accusati. Del processo Cuocolo e di Abbatemaggio hanno parlato storici e studiosi come Franco Barbagallo, Gigi Di Fiore, Marcella Marmo, e lo scrittore Luigi Compagnone dedicò alla vicenda un suo brillante pamphlet intitolato Mater camorra. Ma la storia di Abbatemaggio non finisce qui. A seguito del delitto della giovane Wilma Montesi, avvenuto nel 1953, di cui fu accusato il figlio del ministro degli esteri Piccioni (che dovette dimettersi) il falso pentito del processo Cuocolo rientrò in scena dicendosi al corrente di notizie che potevano far luce sull'assassinio. In particolare accennò a legami tra Lucky Luciano (che viveva a Napoli e dirigeva da S. Lucia il traffico internazionale di stupefacenti verso gli Usa) e uno degli accusati. Per mesi e mesi fu al centro di interviste, memoriali (tutti a pagamento) che gli diedero di nuovo un ruolo centrale in un processo su cui c'era la massima attenzione della stampa. Insomma, Abbatemaggio era un popolano furbo, megalomane, millantatore, un po' attore e un po' ricattatore. Pochi anni prima del processo Cuocolo un altro grande processo aveva attirato l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale: il delitto dell'ex sindaco di Palermo (e direttore del Banco di Sicilia) Emanuele Notarbartolo. Un parlamentare in carica, Raffaele Palizzolo, era stato accusato di esserne il mandante. Il processo che si svolse fuori dalla Sicilia fu caratterizzato da un ampio fronte innocentista, che difese in tutti i modi il parlamentare fino a tributargli un'accoglienza trionfale quando fu assolto dall'accusa. Nel processo Cuocolo, invece, tutta la stampa napoletana, a partire dal «Mattino», fu colpevolista (come abbiamo visto) e sorvolò sulle evidenti manomissioni delle prove. Eppure lo stesso «Mattino» pochi anni prima aveva pubblicato un elogio funebre in poesia di Ferdinando Russo per la morte di Ciccio Cappuccio, il capo camorra che aveva preceduto Enrico Alfano. Sempre Scarfoglio e la Serao avevano duramente attaccato l'inchiesta sul municipio di Napoli svolta dal senatore Saredo a seguito dello scioglimento del consiglio comunale nel 1900. Erano state dimostrate le relazioni che la camorra aveva con il sindaco Celestino Summonte e con il deputato Alberto Casale. Ed era stato coinvolto anche Edoardo Scarfoglio, che venne accusato di aver ricevuto denaro per scrivere i suoi articoli nella direzione voluta dagli accusati. Insomma mentre in Sicilia la mafia era diventata parte integrante della classe dirigente dell'isola e non si era più in grado di arginarla e isolarla, a Napoli, invece, si poteva ancora stabilire un confine che i camorristi non dovevano superare. Ma era un'illusione come la storia successiva ha dimostrato. Saredo aveva parlato di camorra come «interposta persona» unificando nell'analisi il sistema clientelare e quello criminale. E la situazione politica di Napoli e Caserta forniva conferme continue dell'intreccio tra alta e bassa camorra.

Nel capoluogo Alberto Casale era stato inchiodato alle sue «relazioni pericolose» con i camorristi dal giornale socialista La Propoganda, e querelò per tali accuse i giovani redattori che vennero assolti in quanto il magistrato le ritenne veritiere. A Caserta il deputato Peppuccio Romano spadroneggiava nonostante in una relazione a Giolitti il prefetto lo avesse accusato di essere sostenuto da «numerosi affiliati alla malavita», e in parlamento Oddino Morgari lo aveva definito «il maggiore esponente delle camorre in Terra di Lavoro». Il processo Cuocolo era nato da un bisogno fortemente sentito di moralizzazione della vita politica e amministrativa della città. E protagonisti erano stati i socialisti napoletani e anche settori non secondari della borghesia intellettuale. Nella sua Storia della camorra il prof. Barbagallo ha pubblicato una lettera che un giudice popolare del processo, il professore di tedesco Emilio Donatelli, che aveva votato per la non colpevolezza dei capi-camorra, scrisse a un giudice della Cassazione, che vale la pena riprendere: «Nel processo Cuocolo si è fatta confusione di concetti morali e giuridici. La tesi del risanamento dei costumi napoletani e la tesi giuridica dell'accertamento dei responsabili dello speciale delitto Cuocolo sono due cose essenzialmente diverse... Tutti vollero gli imputati condannati in nome della rigenerazione morale di Napoli». Un monito attualissimo per chi si batte, giustamente, per la rigenerazione morale e civile della città a più di 100 anni di distanza da quegli avvenimenti.
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