Il Mattino 125, rivivere Hiroshima
e la potenza suicida della storia

Il Mattino 125, rivivere Hiroshima e la potenza suicida della storia
di Aldo Masullo
Mercoledì 15 Marzo 2017, 08:58 - Ultimo agg. 19:56
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Nel secolo scorso, il «secolo breve», filosofi e storici accarezzarono l’idea di una fine della storia non come antico mito o profezia escatologica ma come compimento del cammino storico nell’ormai raggiunta stabilità del migliore sistema possibile di convivenza. Faccio due esempi. Alexander Kojève, negli anni ’30, ricordava come Hegel salutasse la vittoria di Napoleone a Jena quasi compimento della storia, essendosi ormai avviata la diffusione della ragione nelle istituzioni umane. Francis Fukuyama a sua volta, dopo la caduta del famigerato Muro di Berlino nel 1989, spiegò che la storia era finita, perché la via era ormai aperta al propagarsi della democrazia liberale in ogni parte del mondo.

Quando Kojève insegnò e scrisse, non era ancora caduta la bomba di Hiroshima. Egli poteva dunque seguire tranquillamente il pensiero di Hegel: «È la guerra seminatrice di morte che assicura la libertà storica e la storicità libera dell’Uomo. L’Uomo non è storico che nella misura in cui partecipa attivamente alla vita dello Stato, e questa partecipazione culmina nel rischio volontario della vita in una guerra puramente politica. Così l’uomo non è veramente storico o umano, se non in quanto egli è un guerriero, almeno in potenza».

Ma quando poi Fukuyama in un suo noto libro del 1992 sostenne che la storia era finita, perché ormai non v’era più serio ostacolo all’affermazione universale dello Stato di diritto e dei diritti umani in concomitanza con l’espandersi delle libere economie, la bomba a Hiroshima era caduta da quarantasette anni. E la bomba in verità aveva concorso a mettere crudelissima fine alla cosiddetta seconda guerra mondiale, non alla storia! Comunque, che la storia fosse finita a Jena nel 1806, come aveva pensato lo Hegel ricordato da Kojève, o fosse finita invece con la caduta del famigerato Muro nel 1989, come poi affermò Fukuyama, è solo una questione di interpretazioni, dunque di opinioni, ognuna figlia del proprio tempo e di una determinata ideologia, nessuna dunque opponibile all’altra per rivendicarne la verità.

Invece la bomba, che il 6 agosto 1945, alle ore 8.17 locali, cadde esplodendo a mezz’aria su Hiroshima, così come la seconda tre giorni dopo su Nagasaki, non è l’opinabile interpretazione di un fatto, o addirittura una favola spaventosa, ma è il fatto stesso nella sua disumana enormità. È un fatto, dunque un passato ma, come si disse della Shoah, è «un passato che non passa». Certo descriverlo è impossibile, perché il suo accadere si consumò nei pochi secondi in cui centinaia di migliaia di presenti perirono, senza il tempo di essere davvero presenti, quindi testimoni, cioè di averne sia pure per un attimo coscienza. Non pochi restarono in un soffio letteralmente annichiliti, i loro corpi irradiati ridotti a neri profili sui muri. Ma quel fatto è reale, realissimo, e dei suoi effetti si è riempito il mondo.

In quello sciagurato giorno, si è detto, «il sole cadde sulla terra» e dopo l’accecante lampo tutt’intorno furono le tenebre. Allora la storia, non un singolo uomo o un popolo intero che stanno nella storia, facendola e soprattutto patendola, ma la storia stessa si rivelò d’un tratto mortale per sua propria mano, si scoprì nella sua potenza suicida. La storia, che è la regione dell’essere, in cui il proprio dell’uomo, la libertà, come Hegel concepì, è ricevere e dare morte, appunto per questa sua mostruosa libertà è adesso sotto minaccia di morte. 

In questa situazione-limite, in cui ora ci siamo venuti a trovare, armati dalla tecnologia, che è pur figlia nostra, la razionalizzazione ottimistica, che mai manca nel difendere l’animo umano dalla disperazione, ha sostenuto che, tutto sommato, la minaccia della possibile distruzione totale è un bene, perché è il supremo deterrente contro la guerra. Purtroppo nei decenni a cavallo dei nostri due secoli, il XX e il XXI, le guerre non sono mai mancate, sia pure soltanto locali o regionali. Ma neppure una terza guerra mondiale sembra sicuramente evitata per la minaccia atomica, se addirittura Papa Francesco qualche anno fa, e poi ripetutamente, ha autorevolmente avvertito che noi siamo già dentro la terza guerra mondiale, sia pure combattuta finora in modo anomalo, a macchie di leopardo e con posizioni variamente asimmetriche.

La bomba insomma non smette né mai smetterà d’incombere. Del resto assai di recente l’incauto capo del più potente Stato militare del mondo non ha esitato a farvi cenno. L’ingresso della bomba atomica, come poi delle sue diverse versioni sempre più... perfezionate, ha definitivamente spazzato via lo storicismo razionalistico d’impianto idealistico-hegeliano che, nonostante tutti gli attacchi e i ben diversi orientamenti filosofici venuti alla ribalta, aveva in fondo conservato l’egemonia sulla cultura politica democratico-liberale.

Per Benedetto Croce, che di questa egemonia fu una delle figure più alte, la storia gode di un ambiguo privilegio d’immortalità. Da una parte, in quanto coincide con il «reale», è in linea di principo eterna, non avendo senso parlare di un inizio e tanto meno di una fine del reale. Dall’altra parte, in quanto coincide con lo «spirito», con l’umano in cammino, la storia è logicamente eterna, perché, se pure qualcosa, una catastrofe cosmica, la distruggesse, ciò cadrebbe fuori dell’intenzionale coscienza umana, fuori dunque della storia, e sarebbe pertanto irreale. Dunque la storia non ha né può avere fine, dal momento che, come Croce scriveva in uno dei suoi tardi studi hegeliani, sempre e soltanto «nel nostro limite, di volta in volta, si vive nel pieno, tutti presi, come si è nel fine che si persegue, nella passione d’amore che è la vita». Molto prima peraltro egli aveva osservato non essere se non «uno stravagante pensiero che la storia debba avere un principio ed una fine», poiché non ci sono fatti «originari», ma «sempre originati dall’unica fonte che è lo Spirito vivente con le sue eterne categorie creatrici delle storiche opere e avvenimenti».

Ora invece, da quando la bomba atomica, nelle sue diverse versioni, è entrata nel mondo, la morte della storia, cioè dell’umano, è divenuta possibile per decisione dell’uomo stesso, per la sua volontà cosciente: la morte della storia è divenuta una possibilità della vita storica. La prova irrefutabile, il fatto della bomba, ha fatto saltare l’idea, la convinta fiducia nella immortalità della storia. L’ultima fede laica è stata distrutta.

Intanto nel gioco mentale dei saperi l’ordine si è rovesciato. Prima, per millenni, abbiamo usato la ragione per sapere chi è l’uomo, per conoscere i suoi bisogni e il suo desiderio dominante, i suoi poteri e i suoi limiti, al fine di assegnare alla volontà il compito di risposte adeguate. Ed è stato in gran parte un fallimento, perché la volontà si è troppo spesso rifiutata di rendersi pienamente disponibile a seguire le indicazioni, per non dire il comando, della ragione, come alcune forti ma minoritarie filosofie non hanno mancato di rilevare. Però dopo la bomba, ragione e volontà non possono continuare a rimpallarsi le responsabilità. Ora la volontà è la prima a dovere rispondere. Non si tratta di sapere che cosa siamo, per poter poi volere ciò che al nostro essere sarebbe adeguato. La domanda adesso è estremamente semplificata, massimamente stringente. Non c’è tempo per specularci sopra. La bomba è già lì, sempre pronta, in agguato. Vogliamo vivere nella nostra storicità, oppure lasciare che insieme con noi muoia la storia, singolare e preziosa regione dell’essere, dove l’incessante divenire della natura si è fatto cosciente di sé, è divenuto tempo e cultura, in una parola storia?

Per essere all’altezza di questa perentoria domanda, la politica oggi non può più essere, come pur si è detto, «la continuazione della guerra con mezzi diversi dalle armi», la qual cosa poi finisce sempre con la guerra vera e propria, e questa volta ciò potrebbe essere la fine della storia stessa. Dobbiamo decidere in fretta e tutti, i responsabili d’ogni livello e i popoli stessi con le loro opinioni pubbliche, impegnarci ad essere insieme la nuova politica, la quale non può essere se non fiducia reciproca, tessitura paziente, costruzione instancabile della pace globale come sistema durevole di mediazioni risolutive degl’inevitabili conflitti d’interesse.
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