Neapoli’s karma:
tutto cambia (ma davvero?)

Neapoli’s karma: tutto cambia (ma davvero?)
di Vittorio Del Tufo
Domenica 19 Marzo 2017, 18:01
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Diciamo la verità: solo a quel matto del mio direttore poteva venire in mente di spedirmi, con un lampo di sottile perfidia negli occhi, dritto nel 2042, anno del centocinquantesimo anniversario della fondazione de «Il Mattino». Biglietto di sola andata (forse vuole liberarsi di me) e buona fortuna, facci sapere che aria tira da quelle parti.
Per prima cosa, mi dispiace deludervi, ma qui l’aria non si è surriscaldata affatto, i ghiacciai non si sono sciolti, le auto ancora non volano e non si vedono in giro orde di selvaggi motorizzati pronti a tutto per una goccia di benzina. I volontari di Greenpeace sono ancora in giro a chiedere le monetine, il che è piuttosto rassicurante; la notte invece si dorme male per via di un fenomeno chiamato Brusio di Taos. Avete mai sentito parlare del Brusio di Taos? Taos è una cittadina del New Mexico dove a partire dagli primi anni ‘90 i residenti cominciarono ad avvertire, di notte, un rombo sordo costante. Il fenomeno è stato descritto come un suono che si insinua lentamente nel buio, simile al motore diesel di un camion in lontananza, e una volta cominciato non finisce finché non ricompare il sole. Si tratta di un fenomeno assai snervante e pare, ecco la cattiva notizia, che a provocarlo sia la proliferazione dei dispositivi elettronici e l’inquinamento elettromagnetico.

Poteva andare peggio, però. Non era da escludere una fastidiosissima fine del mondo. Ricordate la profezia del 2050? Andava molto di moda negli anni ‘20 di questo secolo. Il 2050 è l’anno a partire dal quale, come ripeteva spesso Papa Francesco, «se non si fa qualcosa» (cit.) è a rischio la vita umana sul pianeta. Bene, a quanto pare la catastrofe ecologica può attendere. Piuttosto, se tanto mi dà tanto - ho fatto dei rapidi calcoli - sarà l’innalzamento dell’età media e il calo delle nascite a fregarci, tutti. Tra otto anni (sempre nel fatidico 2050) ci sarà un pensionato ogni due persone in età lavorativa, e la dura legge della demografia farà piazza pulita di tutti i buoni sentimenti (così come il flusso incontrollato dei migranti ha fatto piazza pulita dei governi socialdemocratici di mezza Europa e del loro welfare buonista).

L’Italia delle camarille, delle conventicole e delle combriccole non è cambiata molto rispetto a quella del 2017. Solo è un po’ più egoista, più chiusa in se stessa, più avvinta nel cosiddetto odio di prossimità, più prigioniera delle proprie paure. Alla fine, c’era da aspettarselo, i populismi non hanno trovato più argine e sono dilagati ovunque, diffondendo tossine. Però, certe polemichette del 2017, viste dall’alto e dalla giusta distanza, sembrano davvero lontane come le cronache delle guerre galliche.

Ma immagino che vogliate sapere di Napoli. La farò breve: da quando anche le ultime, sparute industrie hanno chiuso i battenti, la città - cosmopolita e accogliente, capitale morale e culturale del Mediterraneo - è più che mai impegnata nel difficile sforzo di consolidare la propria immagine, il proprio brand nel mondo. Negli anni Dieci e Venti del Duemila, come tutti sapete, le politiche d’immagine erano più che altro un’illusione ottica, un artifizio per deviare l’attenzione dai problemi veri, a cominciare dal cattivo funzionamento dei servizi: le condizioni delle strade, i tempi di attesa biblici alle fermate, le fogne che rigurgitavano dai tombini. Un magheggio, insomma, per rovesciare la lista delle priorità e dedicarsi esclusivamente ad attività di facciata.

Bene: qui nel 2042, da quello che vedo, il problema non si pone più, i servizi restano l’ultima delle preoccupazioni e l’immagine è diventata essa stessa sostanza, anzi l’unica sostanza: fluida, liquida, gelatinosa, sostanza 4.0. Come il sangue di San Gennaro, l’immagine si scioglie tre volte all’anno, soprattutto in occasione dei grandi eventi, e allora tutti gridano al miracolo.

Lo scorso 31 dicembre, per esempio, una splendida festa all’aperto durata fino all’alba pare abbia suggellato il Capodanno «più bello e partecipato d’Italia», tra musica dal vivo e fuochi d’artificio. Duecentomila persone hanno invaso le strade da piazza del Plebiscito al Grande Fungo della Rotonda Diaz - l’installazione di arte contemporanea nata dall’evoluzione di precedenti esperienze - per uno spettacolo di luci, suoni e colori che è stato uno straordinario successo di immagine (con conseguente passaggio dallo stato solido allo stato liquido). La vera novità, quest’anno, è stato il «Capodanno a Bagnoli», il quartiere finalmente restituito alla città dopo un’attesa di circa mezzo secolo. La cabina di regia per la bonifica dell’ex area industriale, riunitasi per la prima volta nel lontano 2017 - qualcuno, tra i più anziani, ricorderà le liti da pollaio che ne accompagnarono il debutto - ha concluso i suoi lavori meno di un mese fa, dopo 25 anni di ininterrotto lavoro. E così per la prima volta i cittadini hanno potuto festeggiare il nuovo anno anche nella cittadella di Napoli ovest dove un tempo fumavano le ciminiere.

Potrei raccontarvi delle elezioni amministrative e di quelle politiche, della sinistra Pd e della scissione dell’atomo, della Champions e dello scudetto, di Sanremo e del muro di Trump, dell’Europa a due velocità e del cda del Mercadante. Insomma di come sono andate a finire le cose. Ma vedete, uno dei vantaggi dello scrivere dal futuro è proprio quello di centellinare le informazioni. Vi basti sapere che il futuro è un pasticcio dai contorni poco chiari, anche per chi ci abita. Ma, soprattutto a Napoli, non è affatto distopico come vorrebbero farvi credere certi libri di fantascienza.

La vita, scriveva Scerbanenco, è un pozzo delle meraviglie. Dentro c’è tutto: stracci, brillanti e coltellate in gola. Anche Napoli, nel 2042, è un pozzo delle meraviglie. Una città stupenda e vitale in grado di esprimere straordinarie eccellenze: dalla musica al teatro, dalla cucina all’università. Ma anche una città di inascoltabili giaculatorie, di navigazioni a vista, di infiniti sfinimenti e di felicità inattese.

Restiamo seduti su un immenso giacimento d’arte e cultura, ma non siamo ancora riusciti, da quello che vedo, a trasformarlo in impresa, in ricchezza, in petrolio. E la crisi, la maledetta crisi, continua a mordere, esattamente come venticinque anni fa. Per chi la vive ogni giorno, la crisi è ansia che cova sotto la cenere, è una spada sospesa sulla testa che rende tutti più vulnerabili, soprattutto i più deboli, costringendoli a equilibrismi di tutti i tipi per restare aggrappati alla vita.

Insomma, tutto è cambiato ma nulla è cambiato realmente. Ricordate quel motivetto tanto in voga nel 2017? Quando la vita si distrae cadono gli uomini, ma la scimmia si rialza, si rialza sempre. Questo è vero dappertutto, ma a Napoli è più vero che altrove, anche nel 2042. Perché a Napoli c’è un gene che neppure l’evoluzione di secoli e secoli riesce a modificare: il gene della resilienza, ovvero della capacità di assorbire ogni urto, ogni evento traumatico, ogni deformazione dello spazio e del tempo, insomma ogni situazione difficile, facendovi fronte con ottimismo, magari riorganizzando la propria vita. Autoriparandosi, insomma, con resilientissima leggerezza.
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