I 130 anni del Mattino, un lungo viaggio con la missione di informare

I 130 anni del Mattino, un lungo viaggio con la missione di informare
di Vittorio Del Tufo
Martedì 15 Marzo 2022, 07:00 - Ultimo agg. 16 Marzo, 07:24
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C'è stato un tempo - erano gli anni della Belle Époque - in cui la Napoli dei giornali conviveva con una Broadway un po' scalcagnata, nell'affollato palcoscenico umano di vico Rotto San Carlo, all'Angiporto Galleria. Piazzetta-ombelico dove nacque una storia che è nostra e di tutti, ventre materno per numerose generazioni di giornalisti e intellettuali napoletani: non solo il luogo dove si fabbricavano i giornali - la nostra Fleet Street - ma uno straordinario incubatore di storie, di sogni, di passioni e destini, spesso incrociati. La Galleria Umberto era a un passo, con le sue luci e le sue ombre, con le sue case discografiche specializzate in melodie napoletane, i suoi tre cinema (Colosseo, Santa Brigida e Umberto) e le agenzie di collocamento per attori, cantanti e aspiranti chanteuses.

Il Mattino è nato qui, esattamente 130 anni fa, il 16 marzo 1892, al civico 7 del palazzo dell'Angiporto: vicini di casa, una sartoria e un alberghetto a ore. È nato in soli quaranta giorni, quando Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, sposati dal 1885 e compagni di lavoro nel «Corriere di Napoli» del ricchissimo banchiere livornese Matteo Schilizzi, dopo aver chiuso con don Matteo investirono la liquidazione di 86.000 lire per dar vita alla nuova testata. Quattro rampe di scale consunte, un ballatoio traballante e la porta a vetri col gallo. Nei sotterranei la mitica rotativa Marinoni, che ansimava nella notte di via Toledo; al primo piano la redazione che ben presto cominciò a essere frequentata da fior di poeti, come Giosuè Carducci e Gabriele D'Annunzio, con il quale Scarfoglio anni prima si era sfidato a duello, prima di diventarne amico. Il Poeta, per la cronaca, fu ferito al collo al terzo assalto. 

La storia del Mattino resterà indissolubilmente legata al carisma dei due fondatori, la coppia Scarfoglio-Serao. Si conobbero, si beccarono a lungo, infine convolarono a nozze. Lanciandosi pochi anni dopo nell'impresa della vita. Fin dal primo editoriale Tartarin Scarfoglio mise in chiaro che al vertice degli impegni del nuovo giornale vi sarebbe stata la difesa dei diritti del Mezzogiorno: grazie al Mattino la voce di Napoli doveva «spandersi per tutta l'Italia». A quell'epoca, fine 800, l'analfabetismo raggiungeva, in città e provincia, la percentuale record del 75 per cento. Donna Matilde, avventurosa, audace, amatissima dai napoletani, era il Mattino, e lo resterà per sempre. Divorata dal demone del giornalismo, narrò nei Mosconi, con il soprannome Gibus, i vizi e le virtù della Bella Époque ma soprattutto descrisse, meglio di chiunque altro, quel ventre di Napoli che il piccone del Risanamento, dopo l'epidemia di colera del 1884, aveva lasciato straripante di poveri e disadattati: «Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli?». Non sarebbe bastato, lei lo capì prima di altri e andò allo scontro con il primo ministro Depretis (e poi anche con Mussolini). Alla Serao è dedicata una lapide nella piazzetta che oggi porta il suo nome.

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All'Angiporto, ogni sera, si ritrovavano nella sede del nuovo giornale Ferdinando Russo, autore di versi di successo e responsabile della cronaca cittadina, Gabriele D'Annunzio, già incamminato sulla strada della letteratura e della poesia, Francesco Saverio Nitti, giovane docente di economia politica, Federigo Verdinois, il critico teatrale, che traduceva dal polacco e dal russo i romanzi famosi. Divennero tutti grandi firme del Mattino, assieme a Giosuè Carducci e Roberto Bracco. Nitti, all'indomani del primo numero, piantò una grana perché il suo nome non figurava tra i collaboratori. Era stata una dimenticanza. «Ti prego di annunziare che non faccio più parte del Mattino», scrisse a Scarfoglio. Don Edoardo lo ammansì: «Lo sai che scambio la porta con la finestra. Non far lo sciocco e torna all'ovile. Il Mattino è estremamente brutto e bisogna farlo diventar bello».

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La mattina del 6 giugno 1906, in un appartamento di via Nardones, una domestica scoprì il corpo senza vita di Maria Cutinelli, detta a surrentina, moglie di un basista della camorra, Gennarino Cuocolo. Il processo che ne seguì - il primo grande processo a Mater Camorra, con il suo grumo di atrocità e connivenze - grazie alla coppia del giornalismo italiano diventò uno spettacolo di massa. Tutte le sere, alle 19,30 Il Mattino proiettava su un lenzuolo le immagini in differita in diretta delle udienze di Viterbo, ovviamente in muto ma con commento al megafono di un giornalista ed enorme afflusso di pubblico. Il giornale cominciò a macinare record, raggiungendo in poco meno di dieci anni la tiratura di trentatremila copie. Furono apprezzate e premiate dai lettori anche le scelte culturali del quotidiano, che oltre a ospitare le firme più autorevoli del panorama culturale e letterario pubblicò, a puntate, i romanzi dei più grandi scrittori europei, come «Bel Ami» di Guy De Maupassant, «I Fratelli Karamazov» di Dostoevskij, «Pierrette» di Balzac e il «Trionfo della morte» di D'Annunzio. 

Marzo 1918, la guerra è in pieno svolgimento e anche Napoli piange i suoi caduti. Ma il fronte è lontano, il grande massacro si consuma altrove, in città la vita scorre, almeno in apparenza, normalmente. Poi, la notte tra il 10 e l'11 marzo, la città piomba nel terrore. Un dirigibile nemico, uno Zeppelin, volando ad alta quota sgancia una ventina di bombe sul centro abitato. Alcune cadono in prossimità della sede del Mattino. Tra le vittime si conteranno molti bambini. «Napoli - scrisse il giorno dopo il Mattino - improvvisamente strappata alla sua quiete, coinvolta nelle tragedie della guerra, di cui non aveva che una coscienza trasmessa, conta per le strade le sue ferite». Molti anni dopo, il giornale appoggiò senza riserve il regime di Mussolini, uniformandosi alla propaganda fascista ma senza rinunciare, soprattutto nelle pagine di cronaca, a segnalare con durezza le deficienze dei servizi pubblici e l'inerzia dell'amministrazione cittadina. Il Mattino continuerà a ospitare firme prestigiose, da Curzio Malaparte a Corrado Alvaro, da Alberto Moravia a Elio Vittorini, da Giovanni Papini a Sibilla Aleramo.

Il 9 aprile 1950 fu Giovanni Ansaldo a firmare il lungo editoriale che segnò il ritorno del Mattino nelle edicole, dopo la lunga notte della guerra e la parentesi del «Risorgimento» (il quotidiano fondato a Napoli il 4 ottobre 1943, dopo la liberazione della città da parte degli Alleati, in sostituzione dei tre quotidiani partenopei all'epoca esistenti).

Gli anni di Ansaldo alla direzione del giornale furono gli stessi raccontati magistralmente da Ermanno Rea in «Mistero napoletano»: passioni e destini incrociati all'ombra di una città soffocata dal laurismo e prigioniera di un mondo ancora ferocemente diviso in blocchi. Ansaldo era «il giornalista di Napoli»: abitava, come il geniale e stravagante matematico Renato Caccioppoli, nel Palazzo Cellamare di Chiaia che aveva ospitato Goethe. Tale era la sua popolarità che tra i lettori si diffuse questo epigramma:

Un signor monumentale
con il cranio liscio e tondo
parla sempre col plurale
nell'articolo di fondo

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I grandi maestri ci osservano dalle foto d'epoca, il passato è un teatro di ombre. A Lauro che scialava in pacchi dono per ingraziarsi gli elettori alla vigilia delle elezioni, il Mattino oppose la rubrica «Bontà di Napoli» (con Aldo Bovio, figlio del grande poeta Libero Bovio) in cui sollecitava la solidarietà dei lettori per i più bisognosi. A quei tempi i due giornali della città, il Mattino di Ansaldo e il Roma di Lauro se le davano di santa ragione. Alle possenti armate del sindaco-armatore - o Comandante - Ansaldo replicò potenziando l'offerta editoriale, rafforzando l'informazione sportiva con Gino Palumbo, organizzando con l'amministratore del giornale Egidio Stagno il «Giro della Campania» (una delle prime edizioni fu vinta da Fausto Coppi), circondandosi di collaboratori di grande talento, da Carlo Nazzaro e Luigi Mazzacca, da Giacomo Gherardo (che avrebbe preso il suo posto) al mitico caporedattore Franz Guardascione.

Gino Palumbo rivoluzionò l'informazione sportiva, inventò le pagelle, raccontò prima di tutti il sudore degli spogliatoi. Aveva cominciato alla «Gazzetta dello Sport», che aveva la redazione in via Santa Brigida. A quattordici anni si era presentato con i calzoni corti dal grande Arturo Collana, capo della redazione, detto o sceriffo per l'andatura alla John Wayne, chiedendogli di collaborare. «Ma che vi credete, giovanotto, che questo è l'asilo infantile?», lo gelò don Arturo, l'uomo che avrebbe dato il nome allo stadio del Vomero. Con Palumbo, in pochi mesi, la redazione sportiva del Mattino diventò una palestra di giornalismo e di vita. 

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Nel cuore della notte, dopo una giornata spesa interamente in redazione - l'ultima edizione chiudeva a lle 4 - i ragazzi di Palumbo (da Riccardo Cassero a Romolo Acampora, da Giuseppe Pacileo a Lello Barbuto, e tanti altri) si ritrovavano in Galleria, da Rafele a piazza San Ferdinando o da Giacomino di fronte al Maschio Angioino. O davanti al chiosco di piazza Trieste e Trento, a pochi metri dall'Angiporto, per il rito della limonata con l'acqua suffregna. Sport Sud e Sport del Mezzogiorno, due vecchie care conoscenze dei napoletani, nacquero dal barbiere Carminiello, all'Angiporto Galleria: avrà una vita lunga e prestigiosa. Agli spettacoli finali del concorso di nuoto e di bellezza «Ondina di Sport Sud» si esibivano Mina, Milva, Ornella Vanoni, Adriano Celentano.

In una memorabile alba del 59, in un viottolo di campagna a Quarto, Palumbo sfidò a duello il rivale di sempre, Antonio Scotti di Uccio, un nobile fumantino, capo della redazione sportiva del Roma. La miccia che innescò l'epico scontro fu un articolo di fondo su Lauro, sindaco e presidente del Napoli. Palumbo lo aveva strapazzato per bene e Scotti di Uccio, dalle colonne del Roma, lo definì sciacallo. Gino rispose per le rime e il giorno dopo si trovò sfidato a duello: un duello vero, con tanto di padrini. E siccome queste cose non si sa mai come vanno a finire, fu costretto a prendere lezioni di spada, alla palestra Partenope, con il maestro Mimmo Conte. La sfida per fortuna terminò alla prima stilla di sangue, quando i padrini (per Palumbo c'era Franz Guardascione) trascinarono via i contendenti («Uè, ma ve vulite accirere veramente?») convincendoli a fare pace davanti a un caffè al Circolo della Stampa. Dalla penna alla spada, memorie di un mondo lontano.

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E vennero i giorni di via Chiatamone. Luogo del cuore, oggi della memoria, per molti di noi il vero simbolo di una stagione irripetibile. Quando il Mattino si trasferì di fronte al tunnel della Vittoria, nel maggio 1962, era un giornale in forte crescita, saldamente ancorato ai valori dell'antifascismo, la più autorevole voce del Sud, ma soprattutto la casa di tutti i napoletani. Quando si cominciò a parlare di una nuova sede, Ansaldo borbottò e tentò di sconsigliare il passaggio. Sarebbe rimasto volentieri all'Angiporto Galleria, dove Eduardo Scarfoglio - di cui si sentiva orgoglioso continuatore - aveva dato il via all'avventura de «Il Mattino». Ma Stagno, l'amministratore, fu risoluto: voleva macchinari moderni, sale più accoglienti, ambienti tipografici adatti alla modernità del giornale. Ad Ansaldo, che gestì il complicato trasloco nella nuova sede, successe il piemontese Ghirardo (1965) e a Ghirardo, nel 1975, Orazio Mazzoni, primo direttore napoletano.

Molto tempo prima che «Il Mattino» vi impiantasse le rotative, in via Chiatamone 65 sorgeva il vecchio teatro delle sciantose, il mitico Circo delle Varietà dal quale nel 1894 Armand d'Ary, chanteuse purosangue, aveva mandato in delirio l'intera città sulle note di «A frangesa», scritta per lei da Mario Costa e inno al café-chantant napoletano di fine 800. Io sòngo bona ma so''ntussecosa. 

Quante generazioni di «ragazzi di via Chiatamone», e quanta vita in quelle stanze dove l'intera città si è identificata, riconosciuta, specchiata. Se la città voleva far festa, faceva festa davanti al Mattino. Se c'era da celebrare un dolore, il luogo di quel dolore era il Mattino. Successe con il colera del 1973, successe con il terremoto del 1980. Sangue del nostro sangue, nervi dei nostri nervi. Cinquantatré inviati nei luoghi devastati dal sisma, in Irpinia, nel Sannio, in Lucania. Quasi dappertutto i cronisti arrivarono prima dei soccorritori. E contarono i morti: aggiornando, tendopoli per tendopoli, l'elenco dei sopravvissuti.

«Feci mettere due lunghi tavoli nella mia stanza», ricordò Ciuni, il direttore di allora. «Intorno ci si sedettero Ernesto Auci, primo redattore capo, Massimo Donelli, redattore capo, Maurizio Mendia, Romolo Acampora, Enzo Popoli e Peppuccio Bagnati: avrebbero dovuto fare il giornale, come si dice. Pietro Gargano, capo dipartimento della politica interna, lo chiusi in una stanza: doveva fare l'imbuto d'arrivo, stare al telefono, prendere le segnalazioni, valutare le notizie, selezionarle, concordare i servizi. Con lui misi Carlo Franco, dandogli il compito di memorizzare tutto per farne una sintesi intelligente, mentre Giacomo Lombardi, altro redattore capo, si prendeva sul gobbone, insieme a Mario Caruso, l'organizzazione tecnica, il grosso del lavoro di redazione sarebbe stato fatto da Gerardo Guerra con un gruppo di colleghi. Arrivò Mario Cicelyn, il più anziano inviato. Sto male, ho la febbre, la mia casa è inagibile, sono buono per passare le notizie a una colonna. E si mise a passare le notizie a una colonna». 

Napoli, 25 novembre 1980. Sono le 17. Nella stanza del direttore Roberto Ciuni, al secondo piano di via Chiatamone, dodici persone sono riunite attorno a due lunghi tavoli per impostare la prima pagina del giornale e, soprattutto, per deciderne il titolo: un altro titolo a tutta pagina sul terremoto che due giorni prima, domenica 23, aveva spazzato via in un solo minuto interi paesi, bloccando la vita in una morsa di terrore. Il ricordo di Pietro Gargano, memoria storica del giornale e della città, che quel giorno era presente: «Ciuni ascoltò i resoconti e chiese: Avete suggerimenti per il titolo della prima?. Bisogna fare presto - dissi io - altrimenti là sotto non troveranno vivo nessuno e scoppieranno epidemie». Il direttore sollevò il taccuino e lo mostrò, c'era scritto FATE PRESTO. Rimasi senza parole. Nessuno osò replicare, Ciuni aveva già deciso. Completammo insieme il titolo, decidendo il catenaccio: Per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla». Se il giornalismo è passione civile, quella sera nella stanza di Ciuni venne scritta una straordinaria pagina di passione civile. La denuncia del Mattino venne raccolta dal presidente Pertini e servì a scuotere l'inerzia burocratica e l'esasperazione dei cittadini per i ritardi nei soccorsi. Dal titolo a caratteri cubitali nato quel giorno - FATE PRESTO - Andy Warhol realizzò un'opera d'arte che avrebbe fatto il giro del mondo e che, ancora oggi, è conosciuta in ogni angolo del pianeta.

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Sangue del nostro sangue, nervi dei nostri nervi: Giancarlo continua a sorridere dalle fotografie. Stava parcheggiando a due passi da casa, in piazza Leonardo, quando entrarono in azione le belve della camorra. Era il settembre dell'85: fu un articolo pubblicato sul Mattino, il 10 giugno di quello stesso anno, a decretare la sua condanna a morte. Nessun trattato sulla camorra, nessun esercizio di eroismo: ma un resoconto schietto, essenziale, preciso, di come gli equilibri tra le famiglie criminali fossero cambiati dopo la strage di Sant'Alessandro, avvenuta a Torre Annunziata meno di un anno prima. Giancarlo Siani raccontava da mesi l'anima nera della nostra terra, l'impasto crudele di soldi sporchi e affari scritti col sangue, di politicanti al soldo di camorristi e mafiosi. Passò dalla giovinezza alla morte, a volto scoperto nella sua Mehari.

Diceva il filosofo Aldo Masullo che il Mattino è la Napoli responsabile, perché mentre segue, accompagna e descrive la città nel suo evolversi, cerca di comprendere e far comprendere ai propri lettori le ragioni profonde di questa continua evoluzione. Ecco, conservare e onorare ogni giorno la memoria di Giancarlo non è soltanto tributo, è anche conoscenza. Conoscenza del fenomeno mafioso, dei suoi nuovi codici e delle sue infinite metamorfosi. Dalla camorra verticistica di ieri al vocabolario feroce della camorra di oggi, diffusa, pulviscolare, profondamente innervata nei comportamenti di strati sempre più ampi della popolazione. 

 

Il Mattino e la città. Sempre in prima fila, con lo straordinario gruppo di fotoreporter della Photosud, per raccontare le ferite di un territorio duro, difficile, scorticato, ma anche per celebrarne le eccellenze e i primati. Come nell'epoca d'oro di Maradona, quando le vendite del Mattino raggiunsero cifre record, la prima firma sul Napoli era l'inarrivabile Giuseppe Pacileo e i napoletani, di tutti i ceti, di tutte le età, riversarono sull'asso argentino un affetto soffocante, evidentemente considerandolo una specie di vendicatore venuto da un altro pianeta per riparare torti antichi. Il 10 maggio 1987, pareggiando 1-1 con la Fiorentina, il Napoli vinceva con una giornata di anticipo il primo scudetto. Il Mattino, diretto da Pasquale Nonno, uscì il pomeriggio stesso con un'edizione straordinaria: «Una città in festa».

Anche i grandi protagonisti della cultura e dell'arte, che hanno attraversato la scena partenopea nel secolo breve e nei primi decenni del nuovo millennio, sono passati sotto i riflettori del Mattino. Da Benedetto Croce ad Enrico Caruso, da Eduardo a Pino Daniele. La tra il 4 e il 5 gennaio 2015, il sito del Mattino annunciava al mondo la morte del «Nero a metà» con un articolo di Federico Vacalebre, il giornalista che più ha scritto, prima e dopo, sull'artista napoletano. 

 

La sede del Mattino è stata protagonista anche di numerosi film, da «No grazie, il caffè mi rende nervoso», con Lello Arena e Massimo Troisi, e «Fortapàsc» di Marco Risi, sul delitto Siani, mentre durante la direzione di Alessandro Barbano nasce «Il senso del Mattino», docufilm realizzato da Giffoni Film Festival con l'obiettivo di spiegare ai ragazzi il legame profondo tra la città e il suo giornale, tra il Mattino e il Sud. Un patto di sangue che si rinnova ogni volta e che è stato patrimonio comune per tutti i direttori che si sono succeduti alla guida del giornale negli ultimi decenni, da Giacomo Ghirardo a Orazio Mazzoni, da Roberto Ciuni a Franco Angrisani, da Pasquale Nonno a Sergio Zavoli, da Paolo Graldi a Paolo Gambescia, da Mario Orfeo a Virman Cusenza, da Alessandro Barbano a Federico Monga. Ciascuno con il proprio stile e con il proprio contributo di idee. Mentre sul fronte della proprietà, sempre al fianco della redazione, il giornale ha schierato dirigenti come Albino Majore e poi Massimiliano Capece Minutolo alla presidenza, e l'inossidabile Massimo Garzilli alla direzione amministrativa.

Tutto questo, e molto altro, è stato il Mattino. Una sola grande storia dall'Angiporto a Torre Francesco, l'attuale sede nel Centro Direzionale, un luogo-simbolo della modernità dal quale continuiamo a raccontare al mondo la storia e le storie di Napoli. Dal tempo sospeso del Covid a quello, atroce, della guerra in Ucraina. Giorno per giorno, notizia dopo notizia, per testimoniare quella che Antonio Ghirelli definì l'ineguagliabile vocazione» che i napoletani hanno da sempre per il mestiere più bello del mondo: quello di «andare a vedere». 

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