Quel tricolore made in Sud
dodici campani nella rosa

Quel tricolore made in Sud dodici campani nella rosa
di Fabio Jouakim
Mercoledì 10 Maggio 2017, 08:55
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Quell’anno negli occhi dei tifosi, impazziti di gioia, rimasero le imprese di Maradona, i gol di Giordano e Carnevale, le cavalcate a centrocampo di Bagni e De Napoli, le incredibili parate di Garella. Ma sul tavolo dello scudetto vennero giocate altre carte vincenti, meno appariscenti ma altrettanto importanti. La rete di Volpecina del 3-1 a Torino con la Juve che all’ultimo minuto scatena l’urlo del tifo, e soprattutto regala al gruppo azzurro la convinzione di potercela fare. Quel gol di Muro che scardina la decisiva partita con l’Ascoli a mezz’ora dalla fine, quando serviva la forza di rialzarsi dopo la sconfitta di Firenze. La doppietta di Caffarelli che regala la vittoria contro il Como. Oltre al peso specifico dei campioni, l’arma vincente in quel primo storico scudetto azzurro fu certamente la forza dello spogliatoio. Data dal senso di appartenenza: in quella rosa dell’86-‘87 c’erano ben dodici campani, dei quali otto scesero in campo in quella cavalcata trionfale.
Numeri che paragonati a quelli di oggi - due soli campani in rosa, Insigne e Sepe, con il secondo che non ha totalizzato neanche una presenza tra campionato e Coppe - fanno capire come quel triangolino tricolore sul petto per molti fu una missione. Vincere nella propria terra: un sogno che si realizzava dopo sessant’anni di tentativi. Decisivo fu il ruolo di Peppe Bruscolotti, sia sul campo - dove cedette la fascia di capitano a Maradona in cambio della promessa di vincere il titolo, ma soprattutto per mostrargli la sua amicizia - che fuori, grazie all’aiuto della moglie Mary: casa Bruscolotti era il luogo magico dove, lontane le tensioni del prato verde, ci si rilassava e si cementavano amicizie. Anche oggi Bruscolotti fa da «capo spirituale» degli scudettati: è lui, insieme a Giordano e Volpecina, che sta organizzando la partita a trent’anni di distanza da quel 10 maggio dell’87. Un evento con un retrogusto amaro: non lo ha organizzato il Napoli e non si giocherà al San Paolo. «Una vergogna» dice oggi senza mezzi termini il totem della storia azzurra, record di presenze - 511 tra campionato e Coppe - in sedici stagioni a Napoli.
Dal veterano (Bruscolotti aveva 36 anni quando si cucì lo scudetto sul petto), al giovane Ferrara, che diventò il suo erede, una successione progettata dal tecnico Ottavio Bianchi. A vent’anni Ciro Ferrara aveva già evidenti le stimmate del campione: e se il passaggio alla Juventus non è stato ancora digerito da parte dei tifosi, è negli annali il suo impegno per portare lo scudetto (e poi la coppa Uefa) all’ombra del Vesuvio, con l’orgoglio del napoletano doc. Giovanissimo e umile: «I ragazzi più giovani, ai miei tempi, non azzardavano il “tu” con nessuno - racconterà Ciro anni dopo - Mai pensato di poter chiamare Bruscolotti per nome. Eppure lui, come Bagni e Maradona, mi ha insegnato molto». Una parabola che ha raggiunto il punto più alto in campo, come capitano prima del Napoli e poi della Juve. Meno in panchina, dove la carriera prosegue con fortune alterne e con l’ultima esperienza nella B cinese al Wuhan Zall finita dopo sole due partite. 
I napoletani Caffarelli, Ferrara e Muro, l’avellinese De Napoli, i casertani Di Fusco e Volpecina, il salernitano (Sassano) Bruscolotti e Ciccio Romano da Saviano: fu questo il contingente made in Sud che fece da zoccolo duro per la vittoria. Nelle retrovie, senza presenze a referto ma con un peso nello spogliatoio, altri campani: il puteolano Antonio Carannante, il caprese Costanzo Celestini, il salernitano Massimo Filardi e Pietro Puzone, l’acerrano che diventò grande amico di sua maestà Diego. Furono il guerriero del centrocampo Rambo De Napoli e l’allora giovanissimo baluardo difensivo Ferrara i recordmen di presenze tra i campani, con 28 gettoni. A seguire Bruscolotti e Volpecina a 25. Il difensore casertano, oggi osservatore del Torino, ebbe un ruolo fondamentale, con la sua spinta a sinistra. «Fu una gioia inestimabile - racconta oggi - Avremmo dato qualsiasi cosa per vincere lo scudetto nella nostra terra, ci sembra ancora un sogno».
Dei dodici campani molti venivano dalle giovanili azzurre. E avevano vinto lo scudetto Primavera con Mario Corso, l’ex idolo interista, in panchina. Un passato comune che aveva ancor di più unito quel gruppo: «Io, Di Fusco, Celestini, Carannante, Muro, Ferrara, Puzone. Non mollavamo mai, anche a livello inconscio ti veniva di dare tutto per la tua terra. Se fenomeni come Maradona o Giordano ci trascinavano a livello tecnico, noi li trascinavamo con grinta, volontà, attaccamento alla maglia» prosegue Volpecina. Un gruppo allegro e affiatato. «Con tanti campani in squadra, lo spogliatoio diventava un teatro. Chi in un modo chi un altro, da De Napoli a Muro, da me a Ferrara, teneva alto il morale». Quel gol alla Juve è entrato nella storia: ma quale fu un altro momento topico di quella stagione? «Il pari con la Fiorentina nella penultima al San Paolo, quello che ci diede la sicurezza dello scudetto. Il gol a Torino fu il momento più alto della mia carriera ma fu una gioia personale, quella invece era una felicità diversa, molto particolare». La conclusione di una stagione e una gioia eccezionale fu poi una delusione speciale. «Ero al settimo cielo, dopo una settimana venni a sapere che il Napoli non mi avrebbe riscattato dal Pisa. Mi incazzai moltissimo. Oggi posso dire che la società fece un grosso errore a rinunciare a me, a Muro e a Caffarelli, che andarono in B rispettivamente alla Lazio e all’Udinese. Non eravamo fenomeni, eravamo giocatori normali, però davamo il nostro contributo. L’anno dopo si è sentita la nostra mancanza: saremmo tornati molto utili, sono i fatti a dirlo. Con la rosa più corta la squadra scoppiò». Fu il famoso anno del clamoroso sorpasso del Milan, con la vittoria 3-2 al San Paolo, unico scudetto firmato da Arrigo Sacchi. 
 
 



Ventiquattro furono le presenze firmate da Ciccio Romano, il regista scovato in B (a Trieste) e che guidò per mano gli azzurri verso lo scudetto. Sulla fascia destra quell’anno comparve 21 volte Luigi Caffarelli, oggi responsabile scouting delle giovanili del Napoli, insieme a Gianluca Grava: «Il primo scudetto per me è stato quello della Primavera ‘78-’79 - dice - Quella nidiata passò quasi tutta in prima squadra, cinque-sei vinsero lo scudetto». Il senso di appartenenza dei campani? Vero, ma c’era un altro segreto: «Bruscolotti era il nostro faro - prosegue Caffarelli - ci accoglieva e ci dava consigli, non tanto quelli tecnici ma di comportamento e atteggiamento. Ci ha fatto crescere come uomini, eravamo tanti ragazzini». Quei ragazzini venuti dalle giovanili portarono tanti mattoni alla costruzione dello scudetto. «In quel campionato segnammo tutti, non ci fu il capocannoniere da venti gol, Maradona ne segnò dieci. Fummo importanti tutti». Per Caffarelli 21 presenze su trenta, tante, su quella fascia destra, mescolando qualità e sostanza. «E saltai anche un mese e mezzo dopo un infortunio in Coppa con il Brescia: distorsione al ginocchio, all’epoca ti ingessavano». L’allegria e lo spirito dei campani insieme alla forza dei fenomeni. «Noi sentivamo l’importanza della maglia, ma ovviamente oltre a Diego in quella squadra c’erano leader importanti come Bagni, De Napoli, Renica, Ferrario. Eravamo attorniati da campioni». Il ricordo più bello? Ce n’è uno più importante della doppietta al Como, e non è la passerella al San Paolo contro la Fiorentina. «Quella fu una festa. Ma la sensazione più bella fu a Bergamo. Vinciamo 1-0, gol di Giordano di testa su angolo battuto da me. Mancavano nove partite alla fine e avevamo 5 punti di vantaggio, con la vittoria che valeva due punti: dopo quel risultato ho cominciato a crederci. E poi ricordo il 2-1 a Genova contro la Samp, con un gol mio e uno di Diego: era la Samp di Vialli e Mancini». Poi l’addio e il passaggio a Udine. «Si chiuse un momento dirigenziale, Moggi fece altre scelte e noi valutammo le nostre. Se fosse rimasto Allodi sarei rimasto al cento per cento, e penso anche gli altri. Ci aveva dato fiducia, come Bianchi». Ciro Muro si ritagliò invece con le sue undici presenze il ruolo di vice Maradona. Con un guizzo determinante. Dopo la sconfitta di Firenze l’Inter aggancia il Napoli in testa alla classifica. Quella successiva contro l’Ascoli al San Paolo è la partita della verità, dove la squadra di rango deve saper dare la zampata della reazione. Ma i marchigiani imbrigliano il Napoli per un’ora. Finché, dopo un quarto d’ora della ripresa, ci pensa proprio Muro a firmare l’1-0. 

Quell’anno Garella fu una macchina che non accusò soste: il suo secondo, il casertano di Riardo Raffaele Di Fusco, mise insieme una sola presenza, nell’ultima partita - a scudetto già acquisito - sul campo dell’Ascoli. Ma fu indispensabile in quell’annata irripetibile. «Fu la consapevolezza - racconta - di essere davvero forti che ci diede la spinta per superare ogni ostacolo. La mentalità, che fino ad allora il Napoli non aveva perché non era una squadra abituata a vincere. In più era una squadra dal grandissimo carattere, che usciva fuori nelle difficoltà». Un calcio diverso, con un limite al numero degli stranieri e di conseguenza un enorme contingente di italiani in rosa. «Era differente da oggi, la rosa era di sedici giocatori più due ragazzi. Molti venivano dalla Primavera? Allora si investiva nel settore giovanile. Oggi? Non apriamo questa pagina». Una squadra fatta anche, continua Di Fusco, «di portatori d’acqua, che avevano le qualità per giocare nel Napoli ma che si facevano sentire in mezzo al campo. C’era un mix di tecnica, classe e carattere». Oggi, se si guarda giocare la Juve, «la difesa non lascia niente, ti mangia anche se gioca con il Canicattì. In quel Napoli era l’intera squadra che ragionava così. Era una muta di cani». Che lontano dal campo, però, sapeva divertirsi. «Il ricordo più nitido è la sera prima della partita con la Fiorentina, quella che doveva consegnarci il titolo. Alla vigilia, in sede a Soccavo, facemmo casino fino a tarda notte. Poteva succedere qualunque cosa, ma sapevamo che poi in campo non avremmo fallito». E fu così.
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