Esofagite eosinofila, i campanelli di allarme

Uno studio del Policlinico San Matteo segnala ritardi di tre anni per arrivare alla diagnos

Un medico al lavoro
Un medico al lavoro
di Marcella Travazza
Giovedì 19 Gennaio 2023, 17:44 - Ultimo agg. 17:46
3 Minuti di Lettura

Una malattia si definisce rara quando non colpisce più di 5 individui ogni 10.000. Talvolta, però, ci si accorge che la prevalenza è “falsata” da una grande difficoltà di arrivare ad una diagnosi. E più si diventa bravi a scovare i campanelli d’allarme, più la prevalenza aumenta.
L’esofagite eosinofila, malattia che rende difficile se non impossibile la deglutizione, potrebbe uscire ben presto dal novero delle rare, proprio perché ci si è accorti che è più frequente di quanto si pensasse in passato. Di conseguenza, si sta facendo un gran lavoro per arrivare a una diagnosi precoce.

Ma cos’è che scatena questa patologia? «Alla base c’è un processo infiammatorio che si definisce di “tipo 2” che coinvolge l’esofago», spiega Antonio Di Sabatino, professore ordinario di Medicina interna all’Università di Pavia e direttore della Medicina interna al Policlinico San Matteo. «Semplificando, potremmo dire che l’aumento di cellule infiammatorie che si localizzano in corrispondenza della mucosa dell’esofago porta a una serie di sintomi più o meno gravi. Si va da fastidi simili a quelli del reflusso (acidità, bruciore e nausea) alla difficoltà nella deglutizione che, nel tempo, può arrivare persino al blocco del bolo alimentare». In questi casi il cibo non transita più liberamente verso lo stomaco. Ed è facile immaginare con quali conseguenze, sia psicologiche che cliniche.


Tornando alla prevalenza, Di Sabatino parla di una malattia sottodiagnosticata, che colpisce circa 15 persone ogni 100.000. «Ma, quella che vediamo, è solo la punta dell’iceberg», chiarisce. «L’età di esordio è di solito giovanile, tra i 20 e i 30 anni. Questo non esclude che si possa manifestare in età pediatrica o di transizione, cioè tra i 14 e i 18 anni. Il fatto che i sintomi siano spesso associabili a quelli del reflusso fa sì che molti casi non arrivino ad una diagnosi. Stando ad uno studio realizzato proprio dal Policlinico San Matteo in collaborazione con altri Centri italiani, il ritardo diagnostico medio è di tre anni. Eppure, la diagnosi precoce resta un obiettivo fondamentale perché consente di ritardare o evitare la stenosi esofagea. «Quando l’esofago si restringe - prosegue Di Sabatino - l’impatto sulla qualità di vita è enorme e l’unico modo di intervenire è con una dilatazione meccanica». Molto efficace, è un trattamento preventivo delle complicanze della malattia attraverso la dieta, eliminando cibi quali grano, uova, soia, pesce, noccioline o latte: questo tipo di approccio, non sempre facilmente applicabile, comporta notevole disagio per i pazienti, ha un impatto negativo sulla loro qualità di vita. Un’opzione terapeutica è l’utilizzo di farmaci cortisonici topici che riducono l’infiammazione, ma non è risolutiva per tutti.

«L’esofagite eosinofila risponde bene in una certa quota di pazienti anche ai farmaci che si usano nel reflusso, benché questi ultimi non siano ancora indicati nel trattamento di questa condizione». Il cambio di passo è arrivato da qualche anno grazie ai farmaci biologici, anticorpi monoclonali che bloccano l’infiammazione per i pazienti che non riescono a tenere sotto controllo la malattia con l’alimentazione o con i cortisonici. Chi si batte con forza per far conoscere la malattia, sostenere i pazienti e spingere per una diagnosi precoce è l’associazione Eseo Italia Aps. «Tra i nostri principali obiettivi - spiega la presidente Roberta Giodice - c’è proprio quello di sensibilizzare, di fungere da megafono, affinché si crei attenzione attorno a questa patologia. Abbiamo un comitato tecnico scientifico che ci affianca ed è formato dai maggiori esperti. Facciamo un grande lavoro per coinvolgere e collaborare con tutti gli stakeholder che a vario titolo possono attuare azioni concrete per migliorare la qualità di vita e la presa in carico di questi pazienti, anche perché, una volta arrivati alla diagnosi, i problemi non finiscono». Giodice conclude: «Ci sono delle linee guida nazionali, ma esiste una grande disparità e sono pochi i centri di expertise della patologia».

© RIPRODUZIONE RISERVATA