Ipercolesterolemia, bene le terapie
ma i pazienti sottovalutano i rischi

Ipercolesterolemia, bene le terapie ma i pazienti sottovalutano i rischi
Martedì 9 Novembre 2021, 15:38 - Ultimo agg. 10 Novembre, 06:00
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Quando si parla di ipercolesterolemia ci si immerge in un mondo nel quale la ricerca scientifica sta ridisegnando i confini e aprendo a nuovi orizzonti terapeutici sino a pochi anni fa insperati. Tra coloro che credono fermamente nel contributo offerto dall’innovazione scientifica c’è il professore Paolo Calabrò, ordinario di Cardiologia all’Università della Campania Luigi Vanvitelli.

Calabrò, che è anche direttore della Cardiologia dell’Azienda Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, spiega che «questo processo si muove essenzialmente in due ambiti: uno terapeutico e uno diagnostico-interventistico. In particolare, per quel che concerne le terapie ipocolesterolemizzanti, l’innovazione tecnologica consente oggi nuove possibilità che sono fondamentali per pazienti che hanno un alto rischio cardiovascolare». Resta sempre il “piedistallo” delle statine, sul quale - spiega l’esperto - bisogna «costruire ogni strategia farmacologica per il trattamento dell’ipercolesterolemia». Del resto molti studi clinici controllati, che avevano l’obiettivo di valutare morbilità e mortalità per cause cardiovascolari e mortalità per tutte le cause, hanno documentato il beneficio della terapia ipolipemizzante con statine sia in prevenzione primaria, sia in prevenzione secondaria nei pazienti con coronaropatia conclamata. In associazione alla statina, l’ezetimibe – farmaco che agisce sull’assorbimento intestinale del colesterolo – ha mostrato di ridurre i livelli di colesterolo e di ridurre gli eventi cardiovascolari. Inoltre, vi è la disponibilità di associazioni farmacologiche precostituite di statine ed ezetimibe che hanno un impatto importante sull’aderenza alla terapia.

Le conoscenze sui meccanismi fisio-patologici alla base dell’omeostasi del colesterolo nell’organismo sono fondamentali per ottimizzare l’intervento terapeutico delle ipercolesterolemie. Oggi, l’innovazione in questo campo è ben rappresentata dai cosiddetti “anticorpi monoclonali”, farmaci somministrati per via sottocutanea, basati su tecnologie di ultima generazione e molto efficaci nel ridurre il colesterolo Ldl e gli eventi cardiovascolari; o anche le terapie geniche, che inibiscono la produzione di proteine coinvolte nel metabolismo lipidico. Ma, aggiunge Calabrò, «manca ancora qualcosa, nonostante la disponibilità di diverse strategie terapeutiche, non tutti i pazienti raggiungono i valori desiderati»; per completare «il puzzle di una strategia terapeutica perfetta servirà ancora un po' di tempo».

Il riferimento è legato al tempo di immissione in commercio di una nuova molecola che consentirà di raggiungere, sinergicamente alle altre terapie, i valori desiderati dai pazienti in funzione del loro livello di rischio. Si tratta infatti di una molecola che sarà somministrata per via orale, che non agisce a livello epatico, a differenza di altre terapie, col vantaggio di eliminare alcuni degli effetti collaterali più comuni (dolori muscolari) di alcuni farmaci. «La nuova molecola permetterà di ridurre ulteriormente i livelli di colesterolo nei pazienti che non raggiungono il target desiderato, potrà essere anche utilizzata nei pazienti che non tollerano la terapia con statine e sarà una strategia che ci consentirà di colmare il gap tra ciò che noi addetti ai lavori desideriamo per i nostri pazienti e ciò che nella realtà riusciamo ad ottenere».

Un tasto che resta dolente è invece quello della comunicazione, sia verso l’utenza, sia nel rapporto ospedale-territorio. «È ancora molto difficile far comprendere ai pazienti che avere il colesterolo alto è una malattia, e come tale deve essere diagnosticata rapidamente e trattata con decisione. Soprattutto in pazienti ad alto rischio cardiovascolare si deve agire presto. Abbiamo armi efficaci ma non siamo ancora in grado di far attecchire del tutto il messaggio che vogliamo veicolare. Così come dobbiamo migliorare sotto il profilo del rapporto tra specialisti e strutture del territorio. Capita che, seppur riconosciuta come patologia, questa condizione non venga subito trattata nel migliore dei modi per una difficoltà di accesso alle terapie più innovative. Su questo dobbiamo ancora lavorare, ma il presente ci dice che possiamo essere ottimisti».

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