Operazione Da Vinci,
l'aiuto decisivo del robot

Operazione Da Vinci, l'aiuto decisivo del robot
di Emanuela Di Napoli Pignatelli
Lunedì 24 Maggio 2021, 00:00
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Tecnologia applicata all'urologia, importanza della prevenzione e biologia molecolare: tanti i progressi fatti nell'affrontare il tumore che colpisce la prostata. Ma la vera rivoluzione in chirurgia urologica si chiama robot Da Vinci. «E questa rivoluzione sta di fatto riducendo il ricorso alla laparoscopia, ormai superata da questa tecnologia: il Da Vinci permette una visione tridimensionale immersiva, in grado di moltiplicare fino a 10 volte la normale visione dell'occhio umano, una maggiore facilità di accesso alle anatomie più complesse, una precisione maggiore e anche una diminuzione del tempo di degenza e degli effetti collaterali». A spiegarlo è Vincenzo Mirone, ordinario di Urologia all'Università Federico II di Napoli.

Il professore aggiunge: «Resta insostituibile, però, la presenza umana: il chirurgo gestisce l'operazione da una console quasi sempre a due postazioni. La tecnologia minimizza l'impatto del tremore fisiologico delle mani, il carrello del paziente è fornito di quattro braccia movimentabili e interscambiabili e dell'attrezzatura che consente libertà di movimento su 7 assi e una rotazione di circa 540 gradi. Il robot, dunque, diventa uno strumento che amplifica le mani del chirurgo, migliorandone notevolmente la precisione». Molteplici, poi, i trattamenti per la recidiva del tumore prostatico. «In molti casi si tratta di farmaci che vanno ad interferire con l'attività e con i livelli sierici di testosterone endogeno. Infatti, questo ormone è il nutrimento delle cellule tumorali e per questo un blocco della sua funzione può affamare le cellule che cominciano a rallentare e a morire. In particolare, esistono formulazioni semestrali e nuovi anti-androgeni di seconda generazione utilizzabili negli stadi più avanzati».

Antonia Allegretta, direttore medico Upmc Hillman Cancer Center di Villa Maria a Mirabella Eclano, spiega: «In Italia nel 2019 sono stati diagnosticati 37.000 nuovi casi di tumore prostatico, che rappresenta il 22 per cento di tutti i tumori maschili. Negli ultimi anni i casi registrati sono notevolmente cresciuti. Ciò dipende dall'aumento dell'età media e dalla diffusione del test Psa. Ma la mortalità per questo tipo di neoplasia si sta riducendo costantemente». La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi per il cancro alla prostata è del 91 per cento, una tra le più alte per le patologie oncologiche. La ragione è nella prevenzione e, quindi, nella diagnosi precoce con lo screening spontaneo del test Psa e con la visita urologica. «Le opzioni terapeutiche per il trattamento del cancro alla prostata sono molteplici afferma Allegretta - e vanno scelte e personalizzate in base all'età del paziente, al suo stato di salute generale, all'estensione della neoplasia e alla sua eventuale diffusione extra-prostatica. La radioterapia svolge un ruolo fondamentale nel trattamento del carcinoma prostatico in tutti gli stadi, da quelli iniziali a quelli localmente avanzati. Può essere erogata come trattamento esclusivo o dopo la chirurgia, in presenza di specifici fattori di rischio, oppure per la comparsa di recidiva biochimica (progressivo rialzo del Psa) o di recidiva locale macroscopica. Nel tumore localizzato il paziente può essere candidato a trattamento radioterapico ultraipofrazionato sulla prostata, cioè somministrato in sole 5 sedute a giorni alterni».

L'esperta aggiunge: «La tecnica utilizzata consente di trattare il tumore con altissima precisione e il risultato è paragonabile a quello ottenibile con la chirurgia, ma l'invasività e gli eventuali effetti collaterali sono ridotti al minimo. Inoltre, la breve durata del trattamento rispetto alla radioterapia convenzionale migliora sensibilmente la qualità di vita del paziente». I pazienti con tumore della prostata oligometastatico, cioè con un numero limitato di metastasi, possono essere sottoposti a radioterapia stereotassica in associazione con terapia ormonale. Numerosi studi hanno dimostrato che per questo tipo di neoplasie il trattamento consente di rallentare la progressione di malattia e garantire un'elevata qualità di vita per il paziente».

«L'avvento delle tecniche di biologia molecolare avanzate e gli studi clinici condotti nell'ambito del carcinoma della prostata, basati sulla collaborazione tra biologi molecolari e clinici, hanno fatto fare passi da gigante nell'ambito della definizione di questo tumore dice Michele Caraglia, professore ordinario di Biochimica al'Università della Campania Luigi Vanvitelli . Caratterizzare un tumore significa fare la carta d'identità alla malattia stessa». La medicina rende possibile capire se il tumore ha differenziazione neuroendocrina, una caratteristica che ne peggiora l'aggressività e classificare il carcinoma della prostata in base al rischio di recidivare o dare metastasi. «Questo può guidare il clinico nell'essere più aggressivo nei trattamenti adiuvanti e nel follow-up dopo l'intervento chirurgico. Analogamente è possibile oggi avere il sospetto di un carcinoma della prostata con un semplice prelievo di sangue o di urine attraverso la ricerca di marcatori molecolari circolanti». Non solo: «L'avvento delle terapie basate su bersagli specifici espressi nel tumore ha coinvolto negli ultimi anni anche il carcinoma della prostata. La ricerca di mutazioni in geni presenti nella crescita del tumore è essenziale per decidere se il paziente è sensibile o meno all'attività anti-tumorale di alcuni farmaci. Una rivoluzione nella diagnosi e nel trattamento di questo cancro, che cambierà completamente gli scenari futuri e contribuirà a limitare sempre di più la mortalità del tumore alla prostata», conclude Caraglia.

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