Felice per la Palma d'onore che riceverà domani: «Ma non la considero un risarcimento, a Cannes ho avuto grandi soddisfazioni». Un po' in ansia per la proiezione del suo docufilm più intimo e privato, «Marx può aspettare», davanti a una platea internazionale: «È un'esperienza che mi fa palpitare e quindi mi fa sentire più giovane». Comunque vada la serata finale, questa edizione del Festival un trionfatore ce l'ha già ed è Marco Bellocchio, 81 anni, protagonista di una tre giorni memorabile cominciata ieri con ovazioni e bagno di folla al «Rendez Vous» con il pubblico. Oggi e domani, invece, il regista sarà celebrato con la première di gala del film e il prestigioso riconoscimento alla carriera che gli sarà consegnato, durante la cerimonia di chiusura, da Paolo Sorrentino, arrivato apposta dall'Italia.
Pensato come un film di famiglia - non a caso la prima scena è una tavolata con fratelli, sorelle, figli e nipoti al circolo dell'Unione di Piacenza - «Marx può aspettare» diventa subito, in realtà, un'indagine dei sentimenti sulla scomparsa del gemello di Marco, Camillo, morto suicida a 28 anni in un giorno di dicembre del 1968. È lui, «l'angelo» bello e fragile, il protagonista assente di un viaggio tra le emozioni e i sensi di colpa suscitati da un accadimento destinato a segnare, inevitabilmente, le vite di tutti.
Sincero, cechoviano, bonariamente ironico, commovente e spietato nel racconto di una famiglia complicata, con un fratello maggiore pazzo e una religiosità materna incombente e pervasiva, «Marx può aspettare» incide nella carne viva di una ferita mai rimarginata: «Non avevamo intuito la tragedia nascosta di Camillo, il suo senso di inadeguatezza. Abbiamo pensato a salvarci, ognuno per sé. Io, per esempio, ho trascurato la lettera che mi scrisse per chiedermi di aiutarlo a entrare nel mondo del cinema. Non abbiamo visto il dolore dell'altro, siamo stati assenti». Il titolo del film, prodotto da Kavac con Rai Cinema e Tenderstories, da ieri nelle sale, nasce dall'ultimo colloquio con Camillo. «Gli dissi che avrebbe potuto trovare il riscatto della sua infelicità nella lotta comunista. Sparai queste quattro cazzate rivoluzionarie perché allora militavo in un gruppo maoista e credevamo davvero che la politica potesse cambiare la società. Lui mi rispose: Marx può aspettare.... In quella frase c'era tutta la verità della sua sofferenza e nessuno lo ha aiutato a risolverla».
Nell'incontro con il pubblico Bellocchio ripercorre le fasi della sua carriera a partire dall'anno cruciale, il Sessantotto, ricorda la vittoria a Venezia del Leone d'argento con «la Cina è vicina» ex aequo con Godard: «Subito dopo è iniziata una crisi profonda che mi ha portato alla negazione della mia identità di artista borghese». Poi la conversione al maoismo e l'avvicinamento alla psicanalisi di Massimo Fagioli, «una quarta strada in quegli anni tremendi in cui o ti imborghesivi, o diventavi terrorista o ti drogavi». Il lavoro resta un mezzo e un fine: «Avere progetti mi fa dimenticare l'idea della morte. C'è sempre una sottile angoscia rispetto a questa conclusione inevitabile, non credo all'immortalità dell'anima, ma darsi da fare aiuta a non pensarci troppo». Ora sta portando a termine una serie «faticosissima» sul rapimento Moro, «Esterno, notte», poi penserà al nuovo film sul rapimento Mortara. «Bisogna riconoscere i propri limiti» dice, «ma nell'ambito di questi limiti, fare il massimo».