«Ecco mio nonno Totò: dietro la maschera silenzi e tanta gelosia»

«Ecco mio nonno Totò: dietro la maschera silenzi e tanta gelosia»
di Angelo Carotenuto
Sabato 8 Ottobre 2022, 07:58 - Ultimo agg. 17:23
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Il mare d'autunno a Ostia commuove. Si agita sotto gli occhi di uomini e caporali, sotto il becco di uccellacci e di uccellini. Qui dove Pier Paolo Pasolini visse le ultime ore, abita adesso Elena Anticoli De Curtis, terza figlia di Liliana, nipote dell'assurdo Totò, l'umano Totò, il matto Totò, il dolce Totò, come dicono i titoli di testa del film girato con PPP. Elena parla davanti a questa schiuma e queste onde di un nonno che non ha conosciuto e del cui ricordo adesso è una custode. È stata alla rassegna Varcautori con il libro Il principe poeta, le rime che si possono anche ascoltare dalla voce di Totò con un QR Code tra le pagine. Inquadri un codice a barre e arriva il suono di certe bobine ritrovate in famiglia. «A livella si studiava a scuola, ora non più. Totò è un percorso sensoriale. La carta ha l'odore antico delle veline su cui scriveva con la sua stilografica e l'inchiostro verde che risaltava agli occhi. Nell'ultimo periodo, le poesie riusciva solo a registrarle, non aveva più la vista per scrivere a macchina con due dita, le stesse che usava per suonare il pianoforte».

Chi è il Totò che le hanno tramandato?
«Una figura contraddittoria, due personalità. Da una parte l'artista esuberante e dall'altra l'uomo silenzioso, molto appartato, quasi scontroso, attento al prossimo in difficoltà. Anche nonna Diana ha sempre parlato poco in pubblico di lui, al contrario della seconda moglie, Franca Faldini, più presente. Ha dato pochissime interviste, persino in casa si è aperta tardi. La figura del nonno aleggiava. Era nei quadri alle pareti e in certe foto di mamma. Aveva messo i morti di famiglia tutti su un mobile, accendeva un cero e ci parlava. Quando la facevano incazzare - se chiedeva un'intercessione ma le preghiere non venivano esaudite - allora ci litigava, erano sfuriate, li chiudeva nei cassetti».

Qual è il primo film di suo nonno che ha visto?
«La banda degli onesti. È rimasto il film che amo di più.

Racconta il sogno indicibile di tutti, fabbricarsi dei soldi per non avere problemi, ma arriva la voce della rettitudine che ti dice di non passare dall'altra parte della barricata, come i ragionieri Casoria. Avevamo un proiettore per le bobine e un telo gigante su cui guardare i film, dentro una sala attrezzata in questa bellissima casa, il tipico villino basso delle città in Sudafrica. Io sono nata là».

Perché sua madre si era trasferita?
«Il costo della vita era diverso. La famiglia aveva avuto un tracollo. Totò era morto da poco. Mamma aveva la sua ironia, sapeva sdrammatizzare anche i momenti più assurdi. Dovemmo ricominciare daccapo dopo aver avuto un'azienda di mobili e una boutique di abiti. Aveva imparato a cucinare molto bene dalla nonna. Aprimmo un ristorante italiano, si chiamava Rugantino. Sono diventati due, poi tre, un altro a Montecarlo. Tra i miei 9 e 12 anni ci siamo trasferite là. Voleva che conservassi un rapporto con l'Europa, aveva molti amici. Venivano a cena da noi Grace Kelly, Alberto di Monaco, Emanuele Filiberto, ma non c'entrano le origini nobiliari del nonno. Venivano perché si mangiava bene e per la simpatia di mamma, che si esibiva e cantava in italiano. Poi siamo tornate a Johannesburg».

Com'era agli occhi di una bimba il Sudafrica dell'apartheid?
«Le scene che sbirciavo nelle finestre dei vicini, non erano le stesse di casa mia. La servitù piegata in due, in ginocchio, a lucidare i pavimenti, da noi non c'era. Quando mamma usciva a fare la spesa, provvedeva anche per loro. Gli insegnò la cultura della cucina italiana, avevano altre abitudini, gettavano via il brodo e tenevano le verdure. La pasta al ristorante era sempre al dente, mai portata in tavola come contorno. Gli equipaggi dell'Alitalia venivano a cena dalla figlia di Totò. I sudafricani in servizio erano dodici. Quando qualcuno esagerava con la marijuana, mamma lo mandava a riposare e in cucina prendeva il posto suo. Avevano un'ala esclusiva della casa. Monoth la chiamava mamma e mamma le voleva bene come una figlia».

Chi è Monoth?
«Lavorava con noi. Ebbe una storia con un cuoco del ristorante, rimase incinta. Mamma le comprò tutto per la bimba, dalla carrozzina in giù. Lei la chiamò Elena. Come me. E poi successe la tragedia. Rimase incinta di nuovo, di un altro uomo, non poteva tenere un altro figlio. Mamma le diede i soldi per abortire, lei non si rivolse a un medico, andò da uno stregone. Una sera suona il citofono interno che avevamo in casa e mi dice: Elena aiutami, sto male. Chiamai l'ambulanza, li pregai di fare presto, mi chiesero se il soccorso fosse per una donna bianca o nera. Urlai che era una donna, bianca o nera, a chi poteva importare. Arrivarono dopo mezz'ora, non lo dimenticherò più. La setticemia era in stato avanzato, Monoth non ce la fece, ci fu questo funerale sudafricano simile a una festa. Mamma fece studiare la piccola Elena, nel 1989 siamo tornate in Italia e ci siamo perse. Non so più nulla di lei».

Che cosa pensa del Totò dongiovanni, il Totò di Malafemmena?
«Penso che ogni cosa ha un contesto. Era la mentalità chiusa degli uomini dell'epoca. Nonno era molto possessivo. Non solo con sua moglie, ma anche con sua figlia. Erano delle proprietà. Credo che fosse un riflesso dell'infanzia vissuta. Anna Clemente, di 16 anni, ebbe una storia con un nobile decaduto - il fattaccio, si diceva all'epoca - e nacque lui. È stata una madre che ha imparato a volergli bene solo nel tempo, non subito. Continuava a vedere quell'uomo sposato di sera, lui restava a casa. Anche mia madre è stata possessiva con noi. Io sono nata quando lei aveva 36 anni. All'Università voleva accompagnarmi, a una festa pretendeva di venire con me. Come il nonno che a Capri la spiava con un cannocchiale. Posso almeno vantarmi di aver spezzato la catena con le mie figlie, di 19 e 17 anni, per non farle crescere in compagnia delle paure».

Cosa sanno di Totò?
«Si rendono conto solo in parte della sua popolarità. È passato tanto tempo e mia madre non è stata con le sue nipoti la stessa nonna che ho avuto io. Nonna Diana si metteva a cavalcioni a terra, mamma non era il tipo».

A che punto siamo con il museo?
«Al solito. Al punto e daccapo. Si ricomincia da zero con ogni nuovo governo di Roma e ogni nuovo sindaco di Napoli. C'è una sede individuata in palazzo dello Spagnuolo alla Sanità, tutto il resto è una materia in cui rimettere le mani. Se fossimo i Pavarotti, il museo potremmo farlo da soli. Non lo siamo. Quando il nonno è morto, la famiglia ha dovuto far fronte a una lunga vertenza con il fisco. L'ultima volta ne abbiamo parlato con il ministro Franceschini nel 2019, nel frattempo sono venuti il covid, un nuovo sindaco, un nuovo governo. Se le istituzioni vogliono, il museo lo facciamo. Altrimenti, guardi: Totò a Napoli è vivo».

Dove è vivo?
«Nel sound elettronico del duo Totò Poetry Culture che ha musicato le sue rime. Nei murales alla Sanità e ai Quartieri, diventati una tappa per i turisti. È vivo nella sua casa - e non dico alla Sanità, dove c'è una specie di ossessione per un appartamento in fondo mai suo. Per casa intendo il cimitero, Poggioreale, dove due famiglie si prendono cura della tomba ogni sabato, la aprono al pubblico, con i quaderni su cui lasciare dei messaggi. Tutte le cose belle nate intorno a Totò, sono venute dal basso. Il popolo non lo ha mai tradito».

Per lei che cos'è Napoli?
«Io sono una Babele, ma Napoli è il mio porto sicuro. Il suo disordine mi è naturale, ci vivrei anche domani, se non avessi delle figlie che stanno costruendo i loro percorsi altrove».

Elena, qual è la battuta più bella di Totò?
«È la somma che fa il totale».

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