Festa del Cinema di Roma, intervista a Roberto Andò: «Pirandello, due becchini e la metafora del teatro»

Festa del Cinema di Roma, intervista a Roberto Andò: «Pirandello, due becchini e la metafora del teatro»
di Titta Fiore
Venerdì 21 Ottobre 2022, 11:00 - Ultimo agg. 22 Ottobre, 09:00
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Pirandello, due becchini e una commedia ancora da scrivere. Un film sull'ispirazione. «Sì, sul rapporto delle grandi opere con la vita». A poche ore dal bel successo napoletano di «Ferito a morte» al Mercadante, Roberto Andò ha portato alla Festa di Roma «La stranezza», il nuovo film in cui si confronta, dopo averlo fatto con Raffaele La Capria in teatro, con un altro maestro della nostra letteratura: Luigi Pirandello, appunto. «La stranezza», così s'intitola, è la storia dell'incontro fatale tra lo scrittore, il sempre perfetto Toni Servillo, tornato in Sicilia nel 1920 per gli ottant'anni di Giovanni Verga (Renato Carpentieri), e due spassosi cassamortari, Salvo Ficarra e Valentino Picone, con la passione per il teatro. Mescolando fantasia e fatti di cronaca, il regista immagina che il futuro premio Nobel osservi e spii i due dilettanti in scena restandone colpito e turbato. E che gli echi di quel turbamento si ritrovino rocambolescamente tra le righe di «Sei personaggi in cerca d'autore», che l'anno successivo, il 1921, debuttò tra i fischi al Valle di Roma. Prodotto da Bibi Film, Medusa e Rai Cinema, il film sarà dal 27 ottobre nelle sale. Dice il regista: «Ho ritrovato un vecchio appunto in cui fantasticavo sulla nascita di Sei personaggi».

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Che cosa la incuriosiva?
«Il rapporto tra invenzione e realtà, anche se, guardandolo a posteriori, La stranezza è un film sul ritorno alla vita, perché mette il pubblico al centro di tutto e la stessa cosa fa Pirandello, mettendo in scena la rottura della quarta parete.

Poi è un film sulla Sicilia, per l'unione di comico e tragico che lo attraversa, e una grande metafora del teatro, un omaggio alla sua irriducibile vitalità. Ma il primo spunto, probabilmente, me lo ha dato un dono di Sciascia».

In che senso?
«Un giorno mi regalò una biografia di Luigi Pirandello curata da un grande studioso, Gaspare Giudice. Fu una lettura folgorante sul tortuoso universo dello scrittore, mi aiutò a entrare nei labirinti della sua mente. Me ne sento ancora debitore. Alcuni casi raccontati nel film sono veri: per esempio, il viaggio di Pirandello a Catania per l'ottantesimo compleanno di Verga e il rifiuto dell'autore dei Malavoglia di presenziare alla cerimonia ufficiale officiata dal ministro della Cultura Benedetto Croce. Il fatto che l'inventore dei Sei personaggi avesse una moglie pazza, cosa che gli devastò complemtamente l'esistenza. E il fiasco al Valle, con gli insulti del pubblico e le scazzottate nei palchi, compensato nei giorni seguenti dal trionfo di Milano. Nella raccolta di saggi La corda pazza Sciascia ha avuto intuizioni bellissime su Pirandello e sulla sua capacità di inventare, di trovare il teatro nella vita».

Quanto ha pesato questo autore nella sua formazione?
«È stato determinante. L'idea che l'identità sia un'invenzione è vertiginosa. Oggi, nell'epoca del virtuale, la tocchiamo con mano. Amo moltissimo le novelle, più ancora del teatro, le ritengo il compimento più alto della sua arte. E poi, per noi siciliani Pirandello è come avercelo avuto in casa, lo conosciamo in natura».

Nel cast ci sono attori di formazione diversa. Come li ha messi insieme?
«Il film nasce da una promessa fatta con Ficarra e Picone molto tempo fa. Ero sicuro che avessero corde sfumate necessarie a questo tipo di racconto e sul set ne ho avuto la conferma, sono stati molto bravi, sembrano usciti da un film di Germi. Toni Servillo è l'interprete formidabile che conosciamo, sul quale non serve aggiungere troppe parole, aveva dei lampi negli occhi che lo rendevano uguale al Pirandello dei ritratti più noti. Diciamo che c'è stato l'incontro di tre grandi attori che si sono trovati subito bene a recitare insieme».

Un film «pirandelliano» è anche un modo per riavvicinarsi alle sue radici. Affrontare «Ferito a morte» che cosa ha significato per lei?
«Mi è sembrato di riprendere un filo. A Napoli feci anni fa uno spettacolo alla Darsena Acton su testi di Annamaria Ortese che mi dicono rimasto nella memoria dei napoletani. Era il tentativo di lavorare su una lingua teatrale diversa, una sperimentazione. Il tema era la resa dei conti con la città. Lo stesso di Ferito a morte. Ortese e La Capria sono stati amici-nemici, i rapporti tra autori sono spesso misteriosi. Ma entrambi mi fanno pensare alle parole di Sciascia: nel Sud lo scrittore è sempre un delatore. Ecco, Dudù è un delatore della borghesia napoletana, perché mette in scena il suo fallimento». 

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