«La povertà è una scelta politica», Ken «il Rosso» torna a Cannes dopo due anni di silenzio

«La povertà è una scelta politica», Ken «il Rosso» torna a Cannes dopo due anni di silenzio
di Titta Fiore
Lunedì 20 Maggio 2019, 12:00
4 Minuti di Lettura
CANNES - La Francia delle banlieue è una polveriera alle porte di Parigi dove si ragiona per bande e la convivenza tra gitani, fratelli musulmani, comunità nigeriana, poliziotti della brigata anticrimine e ragazzini senza tetto né legge, viaggia su un filo esilissimo sempre sul punto di spezzarsi. È anche la storia dei boat people senegalesi divisi dal mare e dal bisogno, la Francia: lei a casa ad aspettare, lui imbarcato su un gommone, perso in un viaggio senza ritorno. Dice Mati Diop, la regista bella e grintosa originaria del Senegal che li ha raccontati in «Atlantique»: «Ho visto la realtà di questi uomini troppo spesso tradita e ho come sentito il bisogno di un riscatto». Dice Ladj Lily, anch'egli in concorso con un'opera prima, che il film «Les misérables» è ambientato nello stesso quartiere del romanzo di Victor Hugo. Il suo quartiere. Più di un secolo dopo, poco è cambiato: miseria, degrado, sopraffazione: «La mia storia è un grido d'allarme sulla violenza che affligge le periferie, ho cominciato a girarlo un anno fa ma resta attualissimo, specie se rapportato alle proteste dei Gilet Jaunes. Il presidente Macron farebbe bene a vederlo».

L'inghilterra della Brexit è un paese lacerato dalle contraddizioni del capitalismo: alta finanza e precariato, concentrazioni e famiglie sull'orlo della povertà. Ken Loach, Ken «il Rosso» come lo chiamano per il suo impegno politico e sociale, l'ha raccontata in «Sorry We Missed You», il film che lo riporta a Cannes dopo due anni di silenzio e la vittoria di due Palme d'oro. Il record, che lo accomuna ai fratelli Dardenne, pronti a scendere di nuovo in gara con «Le jeune Ahmed», non alimenta nel regista ulteriori speranze: «I fulmini non cadono mai più di due volte nello stesso luogo». Ma il sorriso che accompagna le parole rivela che essere tornato dietro la macchina da presa, dopo aver annunciato l'addio al cinema, gli piace moltissimo. E che la sua capacità di indignarsi per le ingiustizie del mondo, a 82 anni, non è cambiata.

Nel film un padre di famiglia, dopo aver perso il lavoro, fa le consegne a domicilio per i ristoranti: lavora duro e guadagna poco, come i delivery driver di mezza Europa. Sua moglie arrotonda facendo la badante e non se la cava meglio. Allora decidono di mettersi in proprio con le consegne per una multinazionale. Ma la realtà che si trovano ad affrontare è ancora più dura di ciò che hanno fatto per una vita intera. «Quando ho girato Io, Daniel Blake - racconta Loach - ho cominciato a frequentare i banchi alimentari e mi sono accorto che non vi ricorrono solo i disoccupati, i nullatenenti: per la maggior parte si tratta di persone della working class con un lavoro talmente squalificato da non potersi permettere di mantenere una famiglia. Un tempo s'imparava un mestiere e un lavoro durava per tutta la vita. Oggi non è più così e pur di sopravvivere le persone sono disposte a rinunciare a diritti e tutele. L'idea del film è nata da lì».

La via d'uscita? «Ribellarsi alla deregulation che dilaga nel mondo e genera una rabbia sociale pericolossima. Se il divario economico tra le classi è forte, sarà più facile prendersela con gli emigranti, con chi cucina con aromi diversi, con chi non si veste all'occidentale... Funziona così. In Gran Bretagna il partito socialdemocratico di Jeremy Corbin lo ha capito e in tre anni ha portato i suoi tesserati da centomila a un milione grazie a un programma contro le privatizzazioni e a favore dei lavori ecosostenibili e del controllo democratico. Eppure proprio nel partito si annidano i suoi più grandi nemici». La famiglia, continua Loach, potrebbe essere l'anticorpo adatto a contrastare il malessere sociale, invece «è il luogo dove si acuiscono tutti i problemi e dove facilmente viene meno il principio solidale della comunità». Né va meglio per i giovani, «confusi e smarriti, consapevoli di essere stati presi in giro dalla generazione precedente. Tra loro c'è chi si preoccupa per il pianeta che si sta sgretolando e pensa al bene comune e chi finisce per appiattirsi sui valori del capitalismo e dell'individualismo spinto».

In questo clima di sfiducia e di scontento, continua il regista, è nata la Brexit: «Anche a sinistra molti rifiutano il concetto di Europa Unita, perché vedono nell'Unione solo il trionfo del libero mercato, un movimento di capitali buono per cercare manodopera a basso costo e delocalizzata. Nel voto sulla Brexit si sono fronteggiate le valutazioni di due ali conservatrici, una favorevole all'Europa, ma con restrizioni, e l'altra contraria a qualsiasi vincolo imposto da Bruxelles. La sinistra è stata completamente assente. È come l'allenatore di una squadra che spiega: abbiamo giocato una buona partita, ci è mancato solo il gol. Appunto». E il cinema, che ruolo può avere? «La povertà è una scelta politica, non lo dico io, ma un rapporto delle Nazioni Unite. Di fronte a questo, cosa può fare il cinema? Spero che possa aiutare a smuovere le coscienze. Tutto qui».
© RIPRODUZIONE RISERVATA