Festival del cinema, Venezia celebra Jafar Panahi: il suo coraggio è un'ipoteca sul Leone d'Oro

Festival del cinema, Venezia celebra Jafar Panahi: il suo coraggio è un'ipoteca sul Leone d'Oro
di Titta Fiore
Sabato 10 Settembre 2022, 10:00
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VENEZIA - Aspettando di sapere chi vincerà, stasera, il Leone d'oro, la Mostra che celebra i novant'anni rende omaggio al talento e al coraggio del grande regista iraniano Jafar Panahi, oppositore del regime di Teheran e per questo più volte imprigionato, che ora sta scontando una pesante condanna e ha girato in clandestinità, a distanza, il film passato ieri in concorso, «No Bears» (Gli orsi non esistono), in sala dal 6 ottobre con Academy Two e subito candidato a furor di popolo a uno dei premi maggiori. Per lui, davanti al Palazzo del cinema anche un flash-mob solidale con la presidente di giuria Julianne Moore, il direttore del festival Alberto Barbera e il presidente della Biennale Roberto Cicutto.

Potente, esplicito, duro, «No Bears» racconta chi passa il confine e chi resta per testimoniare il proprio dissenso.

Nel ruolo di se stesso Panahi dirige un film da remoto, da un paesino sul confine della Turchia e, incurante delle conseguenze, combatte la propria battaglia. A Venezia ha già vinto nel 2000 il Leone con «Il cerchio», ora potrebbe fare il bis, e il verdetto avrebbe, si capisce, anche un valore politico. Tra i titoli favoriti nei pronostici spiccano l'opera prima di Alice Diop, «Saint Omer»; la commedia agrodolce di Martin McDonagh, il regista di «Tre manifesti a Ebbing, Missouri», molto applaudito con «The Banshees of Inisherin»; «Argentina 1985», dramedy politico di Santiago Mitre sul processo a Videla e ai suoi colonnelli; «The Whale» di Darren Aronofsky con il protagonista Brendan Fraser da Coppa Volpi; il giapponese «Love Life» che potrebbe avere in giuria un paladino di peso nel premio Nobel Kazuo Ishiguro. Per l'Italia il candidato più forte è Guadagnino con gli innamorati cannibali di «Bones and All», ma anche «Il signore delle formiche» di Amelio e «Monica» di Pallaoro hanno delle chances, soprattutto per le interpretazioni di Luigi Lo Cascio e dell'attrice transgender Trace Lysette (sempre che la titanica Cate Blanchett di «Tàr» lasci libero il campo).

Fuori concorso sono passati la serie noir del danese Nicolas Winding Refn «Copenaghen Cowboy» (prossimamente su Netflix) e in prima mondiale il documentario sul nucleare di Oliver Stone: sul tappeto gli effetti devastanti del cambiamento climatico, tra alluvioni, siccità ed eventi estremi e le risposte possibili sul fabbisogno energetico. «Nuclear», scritto con il professore del Mit Goldstein, presenta la sua ricetta controcorrente: costruire nuovi reattori per sostituire i combustibili fossili altamente inquinanti, poiché l'energia green può fornire solo il dieci per cento del fabbisogno. Sostiene il regista: «Il movimento antinucleare, finanziato in parte da grandi gruppi petroliferi, ha convinto governi, opinione pubblica e mass media che l'energia nucleare costituisse un pericolo tossico. Ma il vero pericolo è il cambiamento climatico, io mi preoccupo del futuro della Terra e della salvezza dei miei figli».

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Nel documentario il regista di «Platoon» e «Nato il 4 luglio» mette in discussione, con dati e interviste, le conseguenze dei disastri dei reattori di Chernobyl e di Fukushima e documenta i risultati ottenuti da quei Paesi che non hanno mai abbandonato il nucleare come la Francia, oggi al riparo dalla crisi energetica con i suoi 56 reattori funzionanti, la Cina, l'India e la Russia, che ne ha 35 come l'America. «La situazione è deprimente e la paura è l'ostacolo più importante, bisogna invertire questa convinzione, il mio approccio è positivo» s'infervora il cineasta, che però si rifiuta di parlare del suo amico Putin («non lo sento dal 2017») e sui pericoli di una nuova guerra fredda taglia corto: «L'odio tra Usa e Russia viene e va e se siamo furbi dobbiamo cooperare, la soluzione è procedere insieme». 

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