Festival di Cannes 2021, ovazione per Nanni Moretti: «Nel mio film il futuro è donna»

Festival di Cannes 2021, ovazione per Nanni Moretti: «Nel mio film il futuro è donna»
di Titta Fiore
Lunedì 12 Luglio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:05
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Ed eccolo, finalmente, sul tappeto rosso, Nanni Moretti in mezzo ai suoi attori, con Margherita Buy, «la nostra Meryl Streep», Riccardo Scamarcio, Adriano Giannini, Alba Rohrwacher, tutti insieme appassionatamente per sostenere «Tre piani», l’unico film italiano in concorso per la Palma d’oro, attesissimo anche dai francesi, e accotl in sala da nun’ovazione commovente, lunga più di dieci minuti, e da un’emozione palpabile. La musica che accompagna les «marches» l’ha scelta Nanni, è «L’allegria» di Jovanotti cantata da Gianni Morandi: «Ci ho pensato molto, mi sembrava la più giusta». La proiezione di «Tre piani» è stretta tra la sfida di Berrettini a Wimbledon e la partita dell’Italia a Wembley. Una data a suo modo storica che il regista sdrammatizza con ironia: «Ai miei film spesso sono state attribuite, generosamente, qualità profetiche. Ebbene, quattro anni fa, quando ho cominciato a pensare a questo progetto, già sapevo che domenica 11 luglio l’Italia si sarebbe battuta su “Tre piani”, quello del tennis, del cinema e del calcio. Già sapevo, ed è uno dei motivi per cui ho deciso di girare il film. Avevo avuto una visione».

Detto questo, tornare a Cannes per la nona volta, e a vent’anni dalla Palma d’oro vinta con «La stanza del figlio», è sempre una grande emozione, ingigantita dalla novità di presentare in prima assoluta ai 2300 spettatori del Grand Theatre Lumiere il film «congelato» da un anno e mezzo per via del Covid: «Conoscendomi, non pensavo che avrei reagito sportivamente all’idea di tenerlo in freezer per così tanto tempo, invece è successo né ho avuto voglia di rimetterci mano.

Nel frattempo ho continuato a lavorare, sto facendo i provini per un nuovo progetto, “Il sol dell’avvenire”, e non mi era mai capitato di cominciare un film prima dell’uscita del precedente. Ho detto al produttore Procacci: “Non voglio sapere quanto offre Netflix per mandarlo in streaming, non lo voglio sapere”. Non tengo alla sala per nostalgia o perché sono anche un esercente, resto felicemente ancorato ai film al cinema da spettatore». Non che le serie non gli piacciano: «Ho visto “Il metodo Kominski”, “Sanpa”, “Chiama il mio agente”. Seguo, ma con moderazione. “Tre piani” l’ho pensato per il cinema e non volevo si evitasse questa tappa, per me fondamentale. C’è il rischio che i film personali vengano scalzati dai prodotti standard pensati per le piattaforme».

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In «Tre piani», tratto dal libro di Eshkol Nevo (Neri Pozza), si intrecciano le storie di tre famiglie che vivono nello stesso condominio (rappresentazione dei tre livelli dell’anima secondo Freud), anche se qui la lettura non è puramente psicanalitica. «Questa storia - spiega Nanni - racconta la nostra tendenza a condurre vite isolate, ad alienarci da una comunità di cui pensiamo di poter fare a meno. In un momento in cui si parla molto di cosa lasceremo ai nostri figli in termini ecologici, non si discute di cosa lasceremo loro in termini etici e morali. Invece ogni gesto che compiamo, anche nell’intimità delle nostre case, ha conseguenze che si ripercuoteranno sulle generazioni future». Ecco, allora, il personaggio di Scamarcio ossessionato dall’idea di un presunto abuso subito dalla figlia da parte del vicino di casa cui la bambina era stata affidata, salvo poi far l’amore con la nipote minorenne dell’uomo, da sempre innamorata di lui. Ecco Alba Rohrwacher, mamma di due figli piccoli, con un marito assente, oppressa dalla paura di aver ereditato il germe della pazzia da sua madre. Ecco la coppia di giudici formata dallo stesso Moretti e da Margherita Buy alle prese con un figlio ribelle e condannato per omicidio stradale. Ancora il regista: «Gli uomini rimangono incistati nelle loro ossessioni, i personaggi femminili cercano di sciogliere i nodi, le donne sono più aperte al futuro». Ne viene fuori un contesto sociale triste, crepuscolare: «Direi doloroso, ma non c’è dramma, il film è anche un inno alla vita, c’è umanità, c’è pietà». 

Oltre alla virtù della pazienza, cos’altro deve alla pandemia? «Che esistessero gli altri lo sapevo già, che ci fossero le diseguaglianze sociali e la morte facesse parte della vita, anche. Sono stato fortunato a non essermi ammalato, come tutti ho patito la clausura, non è che ho scoperto cose nuove. So che mi piace sempre di più fare film, questo sì». A vent’anni dalla Palma d’oro, qual è il ricordo più bello? «Sono grato a Cannes e alla Francia perché prendono il cinema molto sul serio. I francesi hanno deciso di essere molto generosi con il mio lavoro, non so perché, ma finché dura, la generosità, me la prendo. Da ragazzo desideravo fare questo lavoro e ci sono riuscito, oggi onoro il cinema cercando di farlo al meglio e stando attento ad ogni dettaglio. In questo non sono cambiato e mi stupisco che altri registi non facciano altrettanto». E ai giovani cineasti, che cosa consiglia? «Serve seguire la lavorazione di un film, frequentare una scuola di cinema, far vedere il proprio lavoro, leggere tanta buona narrativa. Serve tutto, meno che lamentarsi». 

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