«La nostra favola nera
contro la mafia da fiction»

«La nostra favola nera contro la mafia da fiction»
di Titta Fiore Inviato a Cannes
Venerdì 19 Maggio 2017, 08:50 - Ultimo agg. 21 Marzo, 12:25
3 Minuti di Lettura
 Visto con gli occhi dei ragazzi, il male del mondo non ha redenzione. I fatti non scoloriscono mai nel grigio del compromesso, le cose sono o bianche o nere, i confini netti, le decisioni prese. Nella vita, vista dai ragazzi, c’è il bene e il contrario del bene. Sarà per questo che, sempre più spesso, i registi si mettono dalla loro parte e anche a Cannes non si contano i film che ruotano intorno a storie di bambini infelici per mancanza d’amore, di adolescenti funestati da famiglie disfunzionali o, peggio, vittime della ferocia insensata degli adulti.

Lo testimonia il concorso, dove ieri sono passati «Nelyubov» del russo Zvyagintsev, sulla fuga di un dodicenne sconvolto dalla separazione dei genitori, e «Wonderstruck» di Todd Haynes, racconto di formazione sulla ricerca del padre recitato su due piani temporali da due giovanissimi protagonisti sordi (e una, l’incantevole Millicent Simmonds, ha usato anche in conferenza stampa, il linguaggio dei segni). Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, i due bravi autori di «Salvo», si sono ispirati invece a una storia vera, atroce, la storia del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito di mafia, sequestrato a dodici anni nel 1993 dagli uomini di Brusca per costringere il padre a ritrattare, tenuto in catene per 779 giorni in nascondigli fetidi e alla fine di questo calvario, ridotto ormai a una larva di trenta chili, strangolato e sciolto nell’acido.

«Siamo entrambi palermitani e questa storia perseguita le nostre coscienze» dicono i due registi che hanno deciso di raccontarla per rabbia e ribellione in un film emozionante e molto applaudito scelto per aprire la Semaine de la Critique (in Italia è uscito contemporameamente nelle sale, prodotto da Indigo, Cristaldi e Rai Cinema e distribuito da Bim). «Sicilian Ghost Story» è una favola nera, perché restare sul piano della realtà sarebbe stato insopportabile,spiegano i cineasti, e solo trascolorando la realtà antropologica e storica nelle sfumature del fantastico avrebbero potuto renderne praticabile il livello di crudeltà.

«Il sequestro Di Matteo chiude un’epoca di rara infamità e la sublima con il suo orrore» dice Grassadonia, «per noi era una ferita aperta che non sapevamo come suturare. Il piccolo Giuseppe è un fantasma che rinnova il dolore per l’abominio di cui è stato vittima, per anni ci siamo portati dentro questo grumo di angoscia, poi il libro di Marco Mancassola, “Non saremo confusi per sempre”, ci ha dato l’indicazione giusta. Nel racconto Giuseppe si trasforma, nella fantasia di una compagna di scuola, in un cavaliere immaginario che la protegge. L’intuizione di far collidere la realtà con il fantastico era la chiave. E su questo elemento abbiamo innestato la storia d’amore tra due ragazzini. Luna è l’unica a non accettare la sparizione di Giuseppe ed è pronta a rischiare la vita per non tradire il suo sentimento».

Sullo schermo Luna ha il volto bello e determinato di Julia Jedlikowska, una ragazzina polacca che vive a Palermo con la madre da quando aveva tre anni, Giuseppe ha gli occhi chiari e fieri di Gaetano Fernandez, palermitano della Zisa che ha scoperto il cinema nel Centro Tau gestito dai francescani. Troppo giovani per conoscere la tragica fine del piccolo Di Matteo, si sono accostati alla storia con il timore di guardare in faccia una realtà insostenibile. «L’Italia è il paese delle celebrazioni, ma l’abuso provoca appiattimento, noi volevamo uscire dagli stereotipi e andare al cuore profondo del dramma».

Anche il paesaggio, in «Sicilian Ghost Story», è diverso, meno mediterraneo e più ombroso, tra laghi e foreste come in una fiaba dei fratelli Grimm, e gli adulti sono orchi perduti nell’insensatezza della stupidità. «Il cinema italiano ha avuto esempi altissimi di impegno civile, film come ”Salvatore Giuliano” e “Le mani sulla città” sono dei capolavori inarrivabili, ma questa dimensione con il tempo è diventata ripetitiva e il racconto di mafia un genere di intrattenimento che con il risveglio delle coscienze ha poco a che fare.

Continua a leggere sul Mattino Digital
© RIPRODUZIONE RISERVATA