Massimo Troisi, intervista a Mario Martone: «Ecco il mio Massimo, artista libero e totale»

«Massimo ti faceva ridere e commuovere allo stesso tempo, qualcosa di molto raro, di cui era capace solo Chaplin»

Mario Martone sul set
Mario Martone sul set
di Titta Fiore
Sabato 18 Febbraio 2023, 08:00 - Ultimo agg. 19 Febbraio, 09:06
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Massimo Troisi e Mario Martone si conobbero nel 1992 al festival di Montpellier: lui era già Troisi, Mario era lì con il suo primo film, «Morte di un matematico napoletano», che lo aveva segnalato tra i registi italiani più talentuosi della sua generazione. Entrarono subito in sintonia e Martone è convinto che, se ne avessero avuto il tempo, avrebbero finito per lavorare insieme: «Era nell'aria». Massimo se ne andò troppo presto, un giorno di giugno del 1994. Ma a distanza di tanti anni, quel film che non ebbero la possibilità di girare ora c'è e ieri è passato in una proiezione speciale al festival di Berlino. «Laggiù qualcuno mi ama», che a Napoli e in altre città selezionate si vedrà in anteprima domenica, nel giorno in cui Massimo avrebbe compiuto settant'anni, e poi uscirà dal 23 febbraio in sala in quattrocento copie prodotto da Indiana, Vision e Medusa, non è solo l'omaggio all'arte di un artista geniale, ma lo struggente viaggio autoriale che Martone ha voluto fare nel cinema di Troisi, mettendo in risalto il suo spessore registico, facendo parlare soprattutto i suoi film.

Com'era Troisi dietro la macchina da presa?
«Un grande regista, molto consapevole dei suoi mezzi e del risultato che voleva raggiungere, molto attento al delicato rapporto tra forma e contenuto.

Massimo faceva un cinema libero, come quello della Nouvelle Vague, gli riconosco di essere stato l'apripista del nuovo cinema napoletano. Diceva di essere pigro, ma in soli dieci anni ha creato una filmografia» .

Il suo film parte appunto dalla Napoli degli anni Settanta.
«Mi sembrava importante raccontare Troisi nel clima di quel periodo, con le note di “Io so' pazzo”, i disoccupati organizzati, la mensa dei bambini proletari, i movimenti, il femminismo... Lui e Pino Daniele sono stati due geni emersi da una città in enorme fermento, le musiche di Pino si sposano con il cinema di Massimo come quelle di Rota con Fellini. Tutto nasce da lì. E poi c'è stato il terremoto, il grande spartiacque. Non a caso Massimo volle rigirare la prima scena di “Ricomincio da tre” nel palazzo puntellato, quasi a siglare un tempo, un luogo, un'epoca».

Nel film, che ha scritto con Anna Pavignano, a lungo compagna e sceneggiatrice di Troisi, ci sono documenti inediti e preziosi, come l'agenda personale e gli appunti che Massimo scriveva su foglietti sparsi, ora custoditi da Anna. E lei stesso entra in scena.
«Non è stata un scelta facile, non ci sono abituato, ma dovevo farlo per creare un rapporto personale con Massimo. Volevo che fosse un dialogo tra due registi partendo dai suoi film. Come se parlassi di un pittore del Quattrocento partendo dai suoi quadri. Ringrazio ancora Anna Pavignano per aver messo a disposizione del documentario quel materiale importantissimo con le battute, le impressioni, le poesie stupende di un artista e di un uomo straordinario».

Come andò quella volta a Montpellier?
«Avevo portato “Il matematico” al festival, lui lo aveva visto ma non aveva detto niente. Poi nella notte, tornando a casa, mi sentii prendere sotto braccio: era Massimo e cominciò a parlare del film, capii che non voleva che le sue parole venissero vanificate dalla dimensione sociale del nostro incontro. Era il suo tratto più intimo e vero».

Vi siete più rivisti?
«Andai a trovarlo sul set del “Postino”, dove recitava Anna Bonaiuto, la mia compagna di allora. Stava tanto male, ma guardava comunque avanti. Mi piace pensare che avremmo potuto lavorare insieme. E in questa occasione ho voluto che il suo cinema così libero e ribelle alle convenzioni tornasse a vivere sullo schermo, ho provato a raccontare perché mi è sempre sembrato così bello. Massimo è stato un attore dalla schiena diritta e un autore radicale, e questa è Nouvelle Vague, come lo è interrogarsi sull'amore che affiora e scompare ed è sempre difficile da raggiungere, o attraversare con leggerezza profonda l'inquietudine della vita. E poi mi colpivano i ruoli femminili dei suoi film, così forti e decisi per l'epoca, un altro aspetto della sua totale libertà creativa».

In «Laggiù qualcuno mi ama» al montaggio di scene dei film si alternano alcune conversazioni con artisti che lo hanno amato, come Paolo Sorrentino, Francesco Piccolo, Ficarra e Picone, con due artefici del «Postino», Radford e Perpignani, e con critici che lo hanno studiato come Goffredo Fofi. Com'era il rapporto di Troisi con la critica?
«Era molto rigoroso quando filmava, severo prima di tutto con se stesso, conosceva la macchina da presa e soffriva del fatto di essere considerato un grandissimo comico e non abbastanza come regista. Il nostro film è anche l'occasione di restituirgli qualcosa che gli avrebbe fatto piacere».

Da autori, cosa vi accomuna?
«Siamo molto diversi e io faccio un cinema tutt'altro che comico, ma ci sono delle cose che ci avvicinano: il senso di libertà, per esempio, la capacità di capire il rapporto tra maschile e femminile nella scrittura, una visione di Napoli scomoda per entrambi, perché tutt'e sue siamo figli di questa città in maniera totale, ma insofferenti ai luoghi comuni che la attraversano. La sua principale caratteristica? Ti faceva ridere e commuovere allo stesso tempo, qualcosa di molto raro, di cui era capace solo Chaplin». 

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