Venezia, Martone si candida al Leone: «La mia Capri metafora del mondo»

Venezia, Martone si candida al Leone: «La mia Capri metafora del mondo»
di Titta Fiore
Venerdì 7 Settembre 2018, 10:30
4 Minuti di Lettura
VENEZIA - «Capri-Revolution» si apre con una citazione di Fabrizia Ramondino («Quest'isola compare e scompare continuamente alla vista e sempre diverso è il profilo che ciascuno ne coglie...») e si chiude con la dedica a Lucio Amelio, il gallerista che portò a Napoli Joseph Beuys, l'artista più politico del secondo Novecento. La storia parla di una comunità proto-hippie che scelse l'isola, agli albori del secolo scorso, per i suoi esperimenti di nuova e diversa inclusione sociale. E, non per caso, al centro del racconto c'è una donna, una giovane capraia rocciosa e ribelle. Fragile e forte. Capace di mettere in atto quella rivoluzione dell'anima e della mente cui allude il titolo. Mario Martone dissemina il suo film dei segni di un personale e preciso percorso creativo. «Capri-Revolution», l'ultimo degli italiani in concorso, accolto con sette minuti di applausi e subito inserito nella rosa dei candidati a un premio, chiude la trilogia sulle trasformazioni della società italiana tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento portata avanti con «Noi credevamo» e «Il giovane favoloso». È un punto di arrivo e una ripartenza. «Siamo in viaggio, siamo aperti al confronto e al cambiamento, è questo il senso di ogni rivoluzione» dice il regista napoletano che ha voluto accanto a sé, al Lido, con la moglie sceneggiatrice Ippolita di Majo, tutto il gruppo di attori, con i protagonisti Marianna Fontana, Reinout Scholten van Aschat, Donatella Finocchiaro e Antonio Folletto, e poi i performer, la coreografa Raffaella Giordano e i tecnici. Una piccola, affiatata, solidale comunità.
 
Com'è nata l'idea del film, Martone?

«Mi sono imbattuto nella storia della comune creata sull'isola dal pittore Karl Diefenbach tra il 1900 e il 1913 vedendo i suoi quadri alla certosa di Capri. Non sapevo di quella esperienza che praticava l'arte dentro una radicale rivoluzione umana e anticipò idee e movimenti che sarebbero stati sviluppati molto tempo dopo da Joseph Beuys. Il corto circuito è stato immediato: negli anni Ottanta Beuys creò l'installazione Capri Batterie con un limone e una lampadina per riflettere sul rapporto tra natura e progresso: anche in quel caso l'arte non era una questione estetica, ma un atto politico. Utilizzando il pensiero di Beuys come ponte, le scelte compiute in epoche lontane da Diefenbach possono arrivare diritte al nostro tempo».

Oggi come allora, restano centrali il rapporto dell'uomo con la natura e le divisioni su un'idea tumultuosa e squilibrata di progresso.
«Il film mette in contrasto mondi diversi: ci sono la genuinità contadina della capraia, la scienza positivista del medico condotto, le teorie rivoluzionarie dei giovani nordeuropei naturisti, omeopati, vegetariani, antimilitaristi. E c'è la forte identità di un'isola unica al mondo, un pezzo di montagna dolomitica precipitata nel Mediterraneo capace di attrarre come un magnete chiunque fosse spinto da ideali di libertà e di sviluppo, come i russi che l'esule Gorkij preparava alla rivoluzione. Alla vigilia della prima guerra mondiale quelle visioni così distanti tra loro generarono questioni ancora attuali».

Capri ha il peso e l'importanza di un personaggio.
«L'isola è la metafora del mondo. Rocciosa com'è, ci dice che l'unico modo per andare avanti è il confronto. Inutile pensare di costruire muri per chiudersi in un recinto, il bisogno di aprirsi all'altro è vitale e necessario in tempi dominati dall'odio e dalla paura».

Lo intuisce con istintiva lucidità la protagonista, la giovane capraia Lucia.
«Lucia è una figura luminosa, un simbolo del coraggio, dell'indipendenza e della maturità delle donne. Il film si chiude su di lei, ripresa di spalle, in viaggio verso una speranza di futuro. Come diceva Neiwiller: va alimentata l'illusione. E io aggiungo: va alimentata con le armi dell'amore e dell'inclusione, mai con l'odio».

In che senso «Capri-Revolution» conclude una trilogia?
«Non era voluto, ma ogni film è nato da quello precedente. Ho capito durante le riprese di Noi credevamo che Leopardi poteva essere una voce importante e, allo stesso modo, in Capri-Revolution sono ripartito dai concetti della Ginestra che chiudevano Il giovane favoloso. Poi, mi piaceva che i protagonisti fossero sempre giovani e ribelli perché volevo raccontare un'Italia mai doma, aperta al cambiamento, pronta a seguire l'istinto e a interrogarsi sui rapporti tra gli individui e la collettività».

In questo film, come nella ripresa dello spettacolo di culto «Tango glaciale» e nella mostra ancora in corso al museo Madre è evidente l'interesse a tornare sui temi che caratterizzarono la sua ricerca artistica negli anni Ottanta.
«L'idea della circolarità è sempre stata presente, il mio lavoro è fatto di fili che si riannodano, di tracce che si ritrovano in un respiro collettivo che viene da Napoli. Per restare a Beuys, ricordo quando Lucio Amelio ci chiamò, me e Toni Servillo, per accompagnare quel grande e rivoluzionario artista tedesco a visitare l'antro della Sibilla... Ero un ragazzo, non potevo non esserne segnato. In «Ritorno ad Alphaville il personaggio di Tomas Arana si chiamava Seybu: l'anagramma di Beuys. Gli ho chiesto di poter usare lo stesso nome anche per il capo della comunità hippie di Capri-Revolution. Un piccolo, significativo omaggio».

Ogni chiusura di ciclo prevede una ripartenza. «Capri-Revolution» sarà nelle sale a Natale, pronto a sfidare le commedie delle feste. Poi lei da dove ripartirà?
«Ho già cominciato a scrivere il nuovo film. Per ora dico solo che nella storia ci sarà qualcosa che rovescia la condizione geografica di quest'ultimo. Non è molto, lo so».
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