Napoli, ecco la peste di Camus al tempo del coronavirus

Napoli, ecco la peste di Camus al tempo del coronavirus
di Oscar Cosulich
Mercoledì 6 Maggio 2020, 08:56
5 Minuti di Lettura
Su una terrazza vicino al porto di Napoli l'obiettivo inquadra di spalle un uomo che si avvicina al davanzale e la cinepresa gli si affianca. È Francesco Di Leva (protagonista del «Sindaco del Rione Sanità», film di Mario Martone tratto da Eduardo De Filippo, che è valso al regista e ai protagonisti maschili il premio Pasinetti alla scorsa Mostra di Venezia), ora lo vediamo di profilo: è turbato, si rimette gli occhiali, guarda di sotto e la commozione ha la meglio sul suo dolore, represso fino a quel momento. Stacco: stiamo sorvolando la tangenziale e non c'è traccia di traffico sull'arteria cittadina, che solitamente è imbottigliata. Si sentono suonare le campane (una messa? Un funerale? Difficile a dirsi), mentre le immagini continuano a mostrare una metropoli deserta, dove l'unica creatura vivente è un gabbiano che incrocia la rotta del drone con cui si sta facendo la ripresa. Sono le prime immagini di «La peste», versione cinematografica del capolavoro di Albert Camus, nuovo film di Francesco Patierno prodotto dalla Run Film di Andrea e Alessandro Cannavale (figli di Enzo Cannavale), immagini viste in anteprima. Il napoletano Patierno, 56 anni appena compiuti, è l'eclettico regista, sceneggiatore, scrittore e pittore che, alternando film di finzione a documentari, ha delineato una personale linea creativa, intimamente legata al «cinema del reale», fin dal suo debutto con «Pater familias», selezionato nel Panorama della Berlinale 2003 e che vedeva tra i suoi interpreti proprio Francesco Di Leva, allora al secondo film come attore.

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Patierno ci spiega le immagini che abbiamo visto?
«La terrazza dove abbiamo girato è nella realtà quella di un parcheggio multipiano, mentre nel film è sull'ospedale dove esercita Bernard Rieux, il personaggio interpretato da Francesco Di Leva, un medico che lotta contro la peste per tutto il romanzo. Con Francesco e Andrej Longo abbiamo lavorato sulla sceneggiatura, rimanendo fedelissimi ai dialoghi e alle situazioni scritte da Camus, reinventandone solo il montaggio delle situazioni, ma mantenendo integro il testo, che sembra scritto oggi».

Ma come avete girato?
«Tornando all'essenziale, con una troupe di sole tre persone: l'operatore, che era anche direttore della fotografia, il fonico ed io, oltre ovviamente a Francesco, che non aveva la roulotte per cambiarsi ed è venuto con i suoi vestiti direttamente da casa. C'è stata tanta disponibilità, perché tutti hanno creduto nel senso di un progetto del genere».

E l'uso del drone?
«Quello l'ho gestito in remoto. Di solito si usa il drone per le riprese impossibili, ma nel film è usato il più delle volte ad altezza d'uomo, per sostituire il carrello che dovrebbe essere manovrato da 5 persone. Prima delle riprese col drone avevo fatto uno storyboard completo per l'operatore. Lui mi mandava le sequenze via whatsapp e io lo correggevo, dando le indicazioni se doveva andare più lento o più veloce, più in alto o più in basso».

In questo progetto non teme l'effetto instant movie?
«No, perché sentivo la necessità di smarcarmi visivamente dalle immagini che ci inondano quotidianamente attraverso le notizie. La peste è un romanzo di stupefacente attualità: è scritto nel 1947, ma sembra anticipare il nostro vivere di oggi, guerre ed epidemie si ripetono nella storia dell'umanità in modo identico. Ho avuto la possibilità di riprendere una Napoli deserta, come non sarebbe stato possibile fare nemmeno col budget di una major americana. Con tutte le precauzioni del caso abbiamo filmato per tre giorni gli esterni del film, compreso il finale, proprio per documentare questa Napoli spettrale narrandola con materiale originale, invece che con le immagini di repertorio dei telegiornali. Volevo documentare una realtà da non dimenticare quando tutto sarà finito».

Come proseguiranno le riprese?
«Completati gli esterni ci attendono altri venti giorni di riprese per gli interni, ma dobbiamo aspettare che sia possibile farle in sicurezza. Nel cast, oltre a Francesco Di Leva, sono già confermati Peppe Lanzetta nei panni di padre Paneloux, il gesuita che interpreta la peste come flagello divino, e Cristina Donadio che è Cottard, l'uomo che lucra sulla penuria dei generi di prima necessità e noi abbiamo trasformato in donna. Comunque, per girare in sicurezza, non ci saranno scene con più di 4 o 5 attori simultaneamente sul set e, grazie al teleobiettivo, possiamo farli sembrare più vicini di quanto non saranno nella realtà. Questo film è possibile solo grazie alla tecnologia: dieci anni fa non avremmo potuto realizzarlo».

Di Leva, lei è il protagonista del film, ma ne è anche co-sceneggiatore. Come si è avvicinato al testo?
«Oggi sono uscito di casa e ho visto una città che si stava risvegliando, con le saracinesche dei negozi che si stavano alzando. Io, che fino a 27 anni ho fatto il panificatore, penso che è come se noi avessimo alzato la nostra saracinesca sfornando, in meno di un mese, questa sceneggiatura. Mi ha colpito l'attualità incredibile del testo di Camus. La sua grandezza è testimoniata dal fatto che, quando abbiamo presentato la sceneggiatura, abbiamo avuto le stesse reazioni di quelle ricevute ai tempi del Sindaco del Rione Sanità».

In che senso?
«Allora come adesso ci è stato chiesto se avevamo cambiato il testo per legarlo all'attualità, ma Camus, così come Eduardo, o Shakespeare, sono grandissimi proprio perché riescono a raccontare storie universali e quindi senza tempo. L'unica vera differenza è che nel film non sono i topi, come accade nel romanzo a simboleggiare l'arrivo e la fine della peste: questa volta il male è invisibile e sconosciuto. Al centro del film c'è l'uomo e la sua umanità, perché sono convinto che questa tragedia ci ha cambiato e ci cambierà tutti. Alla fine i cattivi saranno diventati più cattivi e i buoni ancora più buoni, ma con la consapevolezza dell'importanza di essere tali».

Patierno non azzarda paragoni con il neorealismo. Lei che cosa ne pensa?
«È un paragone troppo grande. Sicuramente, però, questo è un film strettamente legato alla realtà di questa pandemia mondiale, così come il neorealismo lo era alla realtà del primo dopoguerra».
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